Amare Cristo ci permette di trionfare sul potere della morte
Scritto da Redazione il 27 Aprile 2024
Spiritualità – V domenica di Pasqua, la riflessione sul Vangelo del Vescovo Emerito di Carpi Francesco Cavina:
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L’allegoria della vite e i tralci è una delle pagine più belle del Vangelo di Giovanni. Gesù racconta questa parabola per illustrare il tipo di relazione che siamo chiamati ad avere con Lui e le conseguenze che ne derivano.
La relazione che il Signore vuole instaurare con noi è qualcosa di molto diverso da quella che si instaura, ad esempio, tra un maestro e i suoi alunni, tra un “sapiente” che educa ad una vita virtuosa i suoi seguaci. Infatti, nessuno dei grandi maestri dell’antichità, si chiami Socrate o Budda, ha mai detto: Rimanete in me ed io in voi.
L’immagine della vigna nell’Antico Testamento e nel Vangelo
Nell’Antico Testamento, la vigna è un’immagine che viene usata per designare il popolo di Israele. Chi opera questa comparazione è soprattutto il profeta Geremia (2.21; 5.10; 48.32; 49.9). Qualche volta la vigna è un simbolo di fecondità (Is. 27.2-6), più spesso è messa sotto accusa perché improduttiva, sterile e quindi deludente per Dio: Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica (Is 5.2). E il Signore sconsolato e deluso esclama: che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché mentre attendevo che producesse uva, essa ha fatto uva selvatica? (Is. 5.4).
Anche Gesù si serve dell’immagine della vigna per raccontare il rifiuto del Messia da parte degli ebrei e la conseguente chiamata alla fede dei popoli pagani (cfr parabola dei vignaioli omicidi in Mc. 12.1-11).
Tuttavia, nella parabola che Gesù racconta troviamo elementi assolutamente originali rispetto all’Antico Testamento, il più significativo dei quali è dato dall’affermazione: Io sono la vite vera. Cristo per presentarsi utilizza il nome con cui Dio si era presentato a Mosè nel roveto ardente. Ci troviamo davanti ad una pretesa inconcepibile.
L’originalità del cristianesimo? Cristo è figlio di Dio
Gesù, conosciuto come il figlio del falegname e di Maria, che viene da uno sconosciuto villaggio di campagna, che morirà tra atroci sofferenze dopo essere stato tradito, rinnegato e abbandonato da tutti, si autoproclama Dio.
L’originalità del cristianesimo sta tutta in questa pretesa. Cristo è figlio di Dio oppure no? Se non è Figlio di Dio noi siamo ancora nel peccato, lui si trova ancora in qualche tomba sconosciuta e noi siamo privi di speranza. Ma se Cristo è Dio, la morte non ha alcun potere su di Lui, è vivo e noi possiamo incontrarLo nei sacramenti, nella sua Parola, nei fratelli..
Diventa, così, comprensibile la insistente necessità di dimorare in Cristo per portare frutto. Non si tratta di un consiglio che viene dato, ma dimorare in Gesù è una esigenza vitale per ogni uomo che viene al mondo. Infatti come il tralcio staccato dalla vite si secca, così la vita senza Cristo manca di pienezza.
Dimorare allora significa rimanere uniti a Lui, vivere nella Sua amicizia, lasciare che Egli sia la guida della nostra vita.
Ascoltando queste parole il nostro pensiero corre necessariamente all’Eucarestia, il sacramento per eccellenza della vita cristiana, dove Cristo, presente nel segno del pane e del vino, si dona a noi come cibo e bevanda per comunicarci la sua stessa vita divina, la quale è pegno di eternità.
Al contrario, “Chi non rimane in me viene gettato via come il talco e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano”. Parole provocanti queste di Gesù perché ci dicono che rifiutare Lui significa morire.
Il Signore, dunque, ci invita a riconoscere e ad accettare la nostra “dipendenza” da Lui. Uniti a Lui potremo trionfare sul potere della morte ed entrare nella piena comunione con Dio, la meta finale della nostra esistenza e di tutta la creazione.