Caffè Lungo: Se un like vale di più di una lacrima
Written by Redazione on 22 Maggio 2019
Non ho mai capito, e probabilmente mai capirò, il motivo per cui le persone sui social debbano cavalcare l’onda delle morti, in particolar modo quelle eccellenti. Mi spiego: ieri, come sappiamo, è morto Niki Lauda. Personalmente, posso dire di essere una delle persone con meno nozioni (e passione) per i motori e i loro protagonisti, quindi mi sono guardato bene dallo scrivere post strappalacrime e acchiappa like su Facebook e dintorni. Anche perché probabilmente sarebbero state righe gonfie di banalità scritte al solo scopo di vedere aumentare le notifiche, frasi millantanti conoscenze e debordanti di retorica, parole mai così false. Per questo motivo e per un rispetto umano verso la persona Niki e la famiglia Lauda, ho preferito soprassedere come in altri casi.
Cosa che, invece, non hanno fatto altre persone (parlo di quelle di mia conoscenza, ma immagino che nel mare magnum del web i numeri siano più elevati), autentici non conoscitori della Formula Uno e che, credo, di Lauda sapessero qualcosa solo grazie alla visione al cinema del film “Rush” (che, peraltro, mi sento di consigliare). Sarà stata vera gioia vedere la pioggia di like ed faccine con lacrimuccia incorporata fiondarsi nel loro profilo, dando magari un senso ad una noiosa mattina di maggio? Non mi sento di farne un colpa a queste persone, il sentirsi importanti sui social per una frase è un nettare dolce che, lo ammetto, in passato ho gustato anche io. Ma cavalcare una morte per una chimera di effimera e momentanea “popolarità” non lo considero accettabile; la vita, non dimentichiamocelo, è al di qua dello schermo.
Voglio ancora immaginare che per la maggior parte delle persone abbia ben più valore vivere in prima persona un’emozione o compiere un gesto di vicinanza toccando con mano un’esperienza, piuttosto che intasare le bacheche altrui di “Pray for…”, “Je suis…” e “Rip” a casaccio, magari ignorando pure il significato di quest’ultimo acronimo. Incrociamo le dita. Federico Bonati