Arte 5.9 – “Corruption”, il primo catalogo di Luca Dominianni: un viaggio tra gli archetipi che danno voce al preverbale

Scritto da il 24 Ottobre 2020

Luca Dominianni

 

L’artista Luca Dominianni ha pubblicato il suo primo catalogo intitolato “Corruption“. In questa prima selezione, il pittore modenese 25enne, ci offre una panoramica delle proprie opere e una riflessione sul ruolo dell’arte in questo particolare momento storico e sull’opportunità di una “corruzione” dell’uomo capace di diventare riscoperta per l’individuo della propria essenza primordiale.

 

Corruzione è il titolo del tuo primo catalogo. Parli di una corruzione che si contrappone ad una “retta via teorica”. Quindi non una corruzione capace soltanto di consumare, ma una fiamma che nel consumare faccia luce su un nuovo modo di essere presenti?

Più che teorica forse direi artefatta, fittizia. Tutti in un certo qual modo siamo portati a seguire questa retta via senza mai ricordarci che non fa parte dell’essere umano. L’essere umano non è un essere perfetto e non è neanche un essere che possa assurgere alla perfezione. Eppure ci piace pensare che possa essere così, tant’è vero che preghiamo i santi e cerchiamo nelle persone un modello da seguire, quando in realtà molto spesso i santi erano individui che inseguivano un modello non umano, bensì divino.

Quindi, intendo una corruzione che sia un nuovo modo di essere presenti, una corruzione che vuole ridare umanità all’essere umano, che vuole ridare agli uomini la consapevolezza di essere difettosi, peccatori. L’idea di riappropriarci del nostro essere fallibili: la fallibilità è uno degli aspetti più umani, interessanti e (anche) divertenti della nostra vita. La corruzione in questo senso non è più una questione negativa ma una normalissima prerogativa dell’essere umano. Frequentemente abbiniamo questa parola – “corruzione” – alla politica, oppure parliamo di quella dell’anima, con chiara accezione negativa. Quest’ultima, invece, potrebbe essere un elemento evolutivo, capace di farci passare da uno stato di inquietudine a uno di calma.

La corruzione, in conclusione, vista come possibilità continua di cambiamento. I santi rinnegano se stessi, mentre io voglio affermare ed essere me stesso: umano, peccatore e fallibile. 

 

Cosa intendi comunicare attraverso i tuoi quadri?

Attraverso i miei quadri voglio comunicare qualcosa di preverbale. Qualcosa che esula dal linguaggio e dal contesto semantico ed entra nel vero animo umano, quello più primitivo e archetipico, che si rifà al passato e alla mitologia. Come diceva Jung i miti sono fatti per essere reiterati, come se il nostro funzionamento più recondito e primitivo ci accomunasse nel corso dei secoli. Per questo siamo in grado di capire la gestualità e il linguaggio emotivo altrui senza che ci vengano spiegati. Questo è il motivo per cui nutro grande interesse verso il “preverbale”.

Spesso mi sento dire che dipingo quadri estremamente angoscianti e tristi. Ecco, queste persone non si rendono conto che il mondo è costellato di fatti carichi di angoscia che non vanno negati soltanto perché ci fanno paura. Non solo: attraverso questi eventi, riusciamo a comprenderci vicendevolmente, risuonando in un’unica relazione umana, molto più che affrontando emozioni positive. Coloro che vogliono tenere l’angoscia fuori dalla loro vita perdono una parte importante della propria umanità.

I contesti dei miei quadri, le ambientazioni e i fondali, spesso rimandano ad una realtà Altra in cui cerco di far esperire allo spettatore sensazioni di angoscia e depersonalizzazione attraverso cui possa toccare con mano nuovi elementi della propria interiorità. Senza usare la parola.

 

La psicologia è un tratto determinante della tua riflessione artistica. Pensi sia più utile la psicologia a comprendere l’arte o, viceversa, l’arte a comprendere la psicologia? 

Psicologia e arte sono due tratti fondamentali nella mia vita. Non esiste la possibilità di capire chi serva a che cosa, diciamo che arte e psicologia sono in compenetrazione vicendevole, questo è certo. L’arte può spiegare la psicologia sotto tanti aspetti – pensiamo ad esempio a Van Gogh, Munch o Bacon – ma possiamo anche dire, allo stesso tempo, che sia la psicologia a spiegare l’arte. Parlando di arte che spiega la psicologia pensiamo alle maternità, alle pietà, ai disegni archetipici e così via, ci sono quadri che parlano di un sentimento comune e non solo di uno specifico episodio storico. L’arte come la psicologia trascende l’uomo, è dentro di noi a prescindere da noi. Dovremmo tornare alle Avanguardie del Novecento per comprendere appieno quanto siano in sintonia queste due branche, Avanguardie che sembrano morte ma in realtà sono solo in letargo, e che appena torneranno alla ribalta esploderanno in questo binomio tra arte e psicologia.

 

Nella tua riflessione parli di artisti “costretti sempre allo stesso stile perché il compratore esige che siano immediatamente riconoscibili i suoi tratti caratteristici”. Se è vero che accadeva anche in passato non si tratta forse, oggi, di un concorso di colpa tra mercanti e artisti dove i primi cercano di rendere più forte l’oggetto del proprio commercio mentre i secondi hanno abdicato al ruolo di intellettuali capaci di determinare più che di essere determinati?

C’è un fortissimo concorso di colpe tra mercanti (o presunti tali) e gli artisti. In un certo senso, però, il torto predominante è opera di quella stragrande maggioranza di artisti che hanno accettato un sistema che li rende merce da vendere. Sicuramente i mercanti d’arte in senso lato hanno spesso creato mostri, prodotto blocchi creativi, portato ad una immobilità artistica.

Dobbiamo tornare alla valorizzazione dell’intelletto sapendo che si può sbagliare, si possono dipingere quadri “sbagliati”, ma è attraverso l’errore che passa l’evoluzione. Qualcuno ha anche criticato il mio catalogo perché prendo una posizione radicale nei confronti di un certo mondo dell’arte, ma i percorsi standardizzati non mi interessano, e preferisco dire ciò che penso senza mezzi termini.

Non mi interessano le “audizioni”, non mi interessa piacere e non mi interessa mercificare me stesso. La cosa peggiore è oggi vedere un mercato dell’arte che non cerca più i talenti, ma li crea a tavolino. L’arte non nasce per piacere alle persone ma per rappresentare qualcosa di profondo, recondito, intimo.

Oggi l’arte serve per andare oltre ad una fotografia fatta con pennelli e colori, gli artisti non devono diventare illustratori, geometri o eccessivamente minimalisti: alla base di tutto ci deve sempre essere l’espressione di uno stato dell’animo che, senza il pennello, non riuscirebbe ad uscire dal corpo.

Quale pensi possa essere il ruolo dell’arte contemporanea nel mondo di oggi? O meglio, pensi che il ruolo dell’arte possa essere differente da quello avuto in passato?

Il ruolo dell’arte è fondamentale, in quanto libera il pensiero.

C’è un aneddoto che ricordo sempre: ad Auschwitz, gli artisti e gli intellettuali venivano tenuti prigionieri in un subcampo di concentramento, Monowitz. I nazisti, infatti, non volevano che essi stessero coi detenuti normali, in quanto temevano una ribellione popolare frutto proprio del lavoro di presa di coscienza degli intellettuali. Questo è il potere della cultura.

Mai come nei momenti difficili dobbiamo sostenere l’arte, ci serve adesso più che mai. Perché oggi l’arte sembra vuota? Perché essa oggi nasce in una società vuota. L’arte può ridarci l’opportunità di tornare a crescere come esseri umani, dovremmo ripartire da qui, dal valore della nostra umanità, riscoprendo anche in ciò che possiamo ritenere negativo la nostra essenza più vera.

 


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