“Profilo minore”, intervista all’autore Federico Federici: quando dentro un sasso si nasconde una montagna

Scritto da il 9 Novembre 2021

Ascolta “”Profilo minore” di Federico Federici: quando dentro un sasso si nasconde una montagna” su Spreaker.

 

Profilo minore è l’ultimo libro scritto da Federico Federici, edito quest’anno da Nino Aragno Editore, casa editrice fondata a Torino nel 1999 che, sin dal suo esordio, ha dato vita a volumi di qualità e realizzato prestigiose collaborazioni anche fuori dai confini nazionali.

L’opera di Federici  solo apparentemente potrebbe sembrare disordinata, eppure, non riconoscere un ordine nelle cose davanti a noi non significa che esso sia assente. Infatti, pagina dopo pagina, scopriamo livelli di lettura più profondi, differenti; un’esperienza nuova, almeno per me.

Consiglio a chi ci segue la lettura di Profilo minore, questa intervista potrà certamente aiutare il lettore a orientarsi in un pensiero vivo e originale, soprattutto vibrante. Con l’augurio di trovare “la montagna nascosta nel sasso“.

 

L’intervista

 

Profilo minore è un libro che racchiude anni di lavoro, come è arrivato alla sua realizzazione?

I primi versi risalgono al 2005, l’ultima stesura al 2019. In mezzo, numerose riscritture e periodi di silenzio in cui il libro è stato pensato ma non scritto, come un prato invernale in cui si lascino cadere i semi da custodire sotto la neve. Probabilmente, mettendo mano ai taccuini, potrei risalire al giorno esatto in cui iniziai, in una sorta di viaggio a ritroso verso il momento zero di un Big Bang. A differenza di altri libri, il titolo e l’impianto generale si sono definiti subito e non sono stati mai modificati o messi in dubbio.

Di quel “primo giorno” ho conservato un reperto, che si può forse trovare ancora in rete, raffigurato in quella che, per molto tempo, fu più di una semplice ipotesi di copertina, ma quasi una visione del mondo, un Castello dei Pirenei senza il castello.

Si tratta di una pietra bianca levigata dal mare, delle dimensioni di qualche centimetro. La raccolsi scambiandola per una specie di uovo e iniziai a rigirarla tra le mani, osservandone da vicino la porosità e le striature leggere. Queste forme di lavorazione superficiale, dovute ad agenti naturali, innescarono una serie di associazioni mentali, magari non rigorose, ma per me affascinanti: la pietra – modello dell’universo, curvatura dello spazio; le deformazioni locali – tracce di altri fenomeni (raggi di luce, polveri, pianeti, galassie ecc.); la pietra – superficie di scrittura, spazio metrico in senso poetico; i graffi – versi, strofe, interi testi abrasi, modi di dire offuscati dall’uso.

L’atto di soppesarla esplorandone sezioni e profili mi spingeva a pensare se (e come) si potesse percepire anche un’intera lingua a quel modo, come un oggetto. Si può ruotare una lingua? Girarci attorno come a una montagna? Il senso di queste domande e di altre è chiaramente poetico, oppure rigorosamente matematico. A me interessava soprattutto la prima possibilità.

Conoscendo questo antefatto, diventa ancora più incisivo il testo riportato in copertina nell’edizione di Aragno, scelto da Andrea Cortellessa all’oscuro di tutto.

 

Il libro ha una struttura non convenzionale, si può dire che la struttura sia influenzata dalla fisica?

Sin dalle prime lezioni di relatività negli anni universitari, rimasi colpito dall’approccio fortemente geometrico alla fisica dell’universo.

Certe leggi si esprimevano bene in quel contesto, mettendo al contempo in crisi un’idea di geometria forse più astratta, legata a misure e movimenti di forme in uno spazio senza tempo. Questa indissolubilità tra fenomeno e struttura è tuttora centrale nella mia ricerca artistica. Parlando di scrittura asemica, per esempio, trovo spesso efficace riferirmi all’ambito biologico, in cui forma e funzione si implicano a vicenda.

I profili numerati rappresentano il tentativo di ricostruire un oggetto a partire da sue ricognizioni parziali. Ragionando sulla pietra, mentre scrivevo, provavo a immaginare una sorta di assonometria linguistica, sempre più stringente nella collocazione dei versi.

Un testo su più pagine o colonne affiancate è da intendersi in questi termini. Osservando la pietra da un lato, dopo una piccola rotazione, si continua a osservare gran parte di quel lato, ma se ne scopre una porzione nuova. Così è dei testi nei quali l’ultimo verso di uno si collega al primo del successivo, oppure di quelli che possono leggersi in sequenza o sinotticamente.

In questo, alcuni sbalzi sintattici residuali sono prova dell’estrema irregolarità del fenomeno in esame e del processo di scrittura cui tende a sottrarsi.

Luce, spazio, tempo, parola, identità sono i nodi di questo tentativo di analisi del mondo. I primi tre rappresentano un evidente richiamo ai miei studi in fisica e alla relativa riflessione filosofica; gli ultimi riguardano un approccio essenzialmente letterario: parole al posto di numeri, identità come punto di osservazione e suoi strumenti, sensoriali e non.

 

All’interno del libro troviamo varie tavole verbo-visive: c’è un’interazione tra componente visiva e componente testuale?

Il libro si apre con una sorta di tavola semiotica, che identifica la parola fuoco come vero e proprio fenomeno in grado di modificare la realtà della pagina, incendiandola. Considerato il testo che precede, essa rappresenta una specie di fiat lux che ispira l’intera opera.

Qualcosa di analogo, quasi di tautologico, avviene a pagina 19, dove una vera e propria fessura si allarga nel corpo del testo. Vi si intravedono tracce calligrafiche, nervi, stringhe ultime di un tessuto messo in vibrazione dal testo, o dalla cui vibrazione, come un insieme di suoni ben calibrati, forse una musica, il testo stesso si genera. Non è un caso che l’intera area semantica di termini quali crepa, graffio, rima, taglio, ecc. ricorra ovunque nel libro come osserva Andrea Cortellessa.

Altre tavole, penso al doppio riferimento cartesiano a pagina 77, sfruttano strumenti dell’indagine scientifica in un contesto poetico per esprimere, ad esempio, l’idea di cosa possa significare muoversi intorno a una lingua, o ruotarla nel senso cui accennavo prima.

L’interazione tra componente visiva e testuale è dunque pari a quella tra figure e grafici in un qualsiasi scritto scientifico o sull’arte concettuale: documenta gli esiti di un esperimento, un progetto, un’installazione.

In altri lavori, editi o che sto ultimando, tale distinzione è sospesa e la superficie testuale diventa un susseguirsi unico di domìni asemici, visivi, verbali, giustificato, in genere, da un fenomeno sfuggente: la trascrizione da nastri smagnetizzati, l’assestarsi di un ghiacciaio in scioglimento e via dicendo.

 

Qual è il suo approccio alla scrittura? Come arriva a realizzare le sue poesie?

La maggior parte dei testi si colloca subito entro un’idea già definita di libro o almeno percepita. Alcuni, nati in risposta immediata a un evento, possono restare esclusi per anni, prima di subire profonde riscritture e trovare posto in un progetto nel quale non erano previsti.

È il caso delle prime pagine di Profilo minore che ricalcano lo schema di Genesi, replicando una sorta di creazione del mondo tra le stanze di un appartamento. L’ispirazione rimanda però a una scena in Werckmeister harmóniák di Béla Tarr in cui sono inscenate, tramite la coreografia di un ballo, le orbite dei pianeti nel sistema solare.

Non parlo mai di “raccolta” di poesie, ma di “libro di poesia”, proprio perché ritengo che la coesione tematica e formale o, perché no, la dispersione controllata siano elementi chiave del tipo di scrittura che mi interessa, almeno a partire da Quattro Quarti.

Tra i lavori editi, alcuni hanno un nucleo tematico preciso (la guerra in Parabellum; l’amore in Lettere d’amore a Peter Rabbit), altri si sviluppano a partire da un oggetto o da un fenomeno che li struttura a fondo (le scansioni oniriche in Dimensione del sonno/ Maß des Schlafes; la memoria di una pietra di fiume in Requiem auf einer Stele; il piccolo monolite bianco in Profilo minore).

La prima stesura di un libro può risultare sconnessa e disomogenea e richiedere tempo. Compito delle successive sarà definire esattamente i rapporti tra i testi. Unica eccezione, sinora, riguarda Mrogn scritto interamente in un unico giorno, domenica 12 aprile 2009, poi sottoposto a un montaggio quasi cinematografico delle sequenze negli anni successivi.

Mi accorgo di essere giunto alla fine quando percepisco il corpo testuale come una forma levigata. Poco prima di questa fase, l’elemento più difficile da mettere a punto sono le virgole, vere e proprie spine nel gambo del verso. Idealmente, vorrei che il solo spazio bianco tra le parole fosse sufficientemente carico di senso da evitarmi la fatica di segnarlo ulteriormente, di delimitarlo assegnandogli un peso nel respiro di chi legge.

Scrivo direttamente al computer. Le parole affidate a un editore di testo (sia esso tradizionale o meno, come nel caso del LaTeX) valgono quanto i punti associati ai dati di un esperimento. Mi piace vederle dispiegarsi sulla pagina, soppesarne la perfezione alfabetica, non corrotte dalla calligrafia. In tal senso, le fratture introdotte dalle tavole asemiche richiamano talvolta il dato grezzo della scrittura, il gesto separato dal suo effetto.

Tra gli inediti, permangono intere sequenze di testi inservibili. Li riconosco magari dopo molto tempo e, nella loro solitudine, richiamano libri già pubblicati. Mi ricordano la muta del serpente: attraverso la loro stesura, mi sono esercitato in qualcosa che in quel momento non sapevo, ma che mi ha portato altrove, definitivamente.

 

Cosa vorrebbe cogliesse il lettore leggendo questo libro?

Vedendolo finito, credo che il lettore attento possa cogliere davvero la montagna nascosta nel sasso, di cui il libro è erede designato.

Persino lo spazio tra i testi risponde a un rigore formale, a un’armonia di parti sospese, di bianchi, di silenzi significanti. Tra due piccole cavità nella pietra e intorno a esse, vi è infatti altra materia che le unisce, tenendole distinte. Come il sasso è un insieme di pieni e di vuoti, e gli uni non contano meno degli altri, così il testo è un insieme di parti scritte e non scritte.

Le fughe liriche, che spezzano spesso i passaggi più argomentativi, sono intuizioni, lampi riassorbiti in un secondo momento dal testo. Le figure interlocutorie, ma assenti, raddoppiano la solitudine di chi parla in chi ascolta e di chi scrive in chi legge.

Le azioni suggerite (fai, premi, prendi, prova ecc.) sono teneri imperativi o invocazioni e chi le pronuncia le rivolge anzitutto a se stesso. Al lettore il compito di verificarne o falsificarne l’esito.

 

 

Federico Federici

 

“Federico Federici è nato nel 1974. Laureato in fisica vive e lavora tra l’Appennino ligure e Berlino. Si occupa principalmente di poesia, poesia visiva, scrittura asemica, installazioni e videoarte.

Tra i suoi libri L’opera racchiusa (2009, Premio Lorenzo Montano); Requiem auf einer Stele (2010); Appunti dal passo del lupo (2013, collana a cura di Eugenio De Signoribus); Dunkelwort (2015); Mrogn (2017, Premio Elio Pagliarani); A private notebook of winds (2019). Nel 2008 ha curato e tradotto dal russo Sono pesi queste mie poesie di Nika Turbina. Estratti dall’inedito Maß des Schlafes sono usciti nell’antologia Jahrbuch der Lyrik (2019 e 2020). 

Ha partecipato a mostre e installazioni come Libri d’Artista dalla Collezione dell’Accademia di Belle Arti di Palermo, a cura di Francesco Aprile (Palermo, 2019); Scritture sperimentali e di ricerca dagli anni Sessanta a oggi, a cura di Giuseppe Garrera e Sebastiano Triulzi (L’Aquila, 2019); Brief aus Treblinka, in res.o.nant a cura di Misha Kuball (Jewish Museum, Berlino, 2018-2019)”.

 

 

 


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