Il vizio capitale dell’ira: la riflessione del Vescovo Francesco Cavina su collera e mitezza

Scritto da il 7 Marzo 2023

Ritratto di Bravo di Ando Gilardi (1921-2012), olio su tavola, Italia, 1993 (Fototeca Gilardi / AGF)

 

La riflessione sul vizio capitale dell’ira di monsignor Francesco Cavina, Vescovo Emerito di Carpi, realizzata in occasione della conferenza sul tema promossa dal Monastero Wifi di Bologna il 25 febbraio 2023 presso il Santuario di Santa Clelia Barbieri a San Giovanni in Persiceto.

 

Il vizio capitale dell’ira

 

Noi parliamo di “collera”, di “ira”, ma in realtà ci sono collereire al plurale, che nascono e si manifestano con modalità e motivazioni molto diverse fra di loro. Infatti, l’ira può presentarsi come “santa”, ma anche come “funesta”.

La “santa ira”, di cui ne troviamo testimonianza in tanti episodi della Sacra Scrittura (cfr. Es 32,10-11; Mi 7,9; Sof 1,15; Sal 85,4-6), ha come suo protagonista Dio stesso. Applicare l’ira a Dio sembra la cosa più assurda che si possa concepire, soprattutto alla luce della rivelazione di Dio come amore e misericordia.

Ci aiuta a interpretare, per quanto possibile, l’ira di Dio un brano della lettera ai Romani:“lira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nellingiustizia” (Rm 1,18). Queste parole dell’apostolo Paolo ci dicono che Dio non è impassibile ed indifferente davanti alle vicende umane.

Non può tollerare il male senza intervenire. Se non lo facesse ne sarebbe complice. La sua ira è a difesa del bene, del debole, dell’oppresso. Dio, inoltre, non può sopportare che il suo popolo sia umiliato e oppresso, o che esso rifiuti il suo amore e la sua alleanza, avviandosi su strade di morte e di auto- condanna.

Il Signore si comporta come una madre che non si rassegna a vedere soffrire il proprio figlio o a vederlo afflitto da mali. In definitiva, Dio si arrabbia, ma non è cattivo.

La collera di Dio, infatti, «è una reazione appassionata e deliberata a favore delluomo e non unemozione irrazionale e incontrollabile» (p. 165). L’ira appare nella Bibbia, quindi, come il volto appassionato, e anche oscuro, direi, dell’amore di Dio che ricorre a tutti mezzi per strappare l’uomo dalle sue vie di rovina e  di perdizione.

 

L’amore di Dio e l’ira di Dio 

Tenere insieme l’amore misericordioso di Dio con la sua ira e con il suo giudizio è un’impresa per noi impossibile. Tuttavia, questi aspetti di Dio, che a noi appaiono  inconciliabili,  ne salvaguardano il Mistero. È sempre presente nell’uomo e nella Chiesa la presunzione di volere capire Dio.

Afferma sant’Agostino: “Se lo comprendi, non è Dio”. Dio è altro da noi! Non possiamo rinchiuderlo negli spazi angusti della nostra intelligenza e neppure proiettare in Lui le nostre aspettative o applicare a Lui i nostri schemi mentali e culturali. È vero, Egli si è rivelato all’uomo, si è fatto conoscere, ma rimane pur sempre diverso da noi. “I suoi pensieri non sono i nostri pensieri e le sue vie non sono le nostre vie”.

Per questo, come insegna il Concilio Vaticano II: “A Dio che si rivela è dovuta l’obbedienza della fede”. Ora, se sono reali  e vere le pagine della Sacra Scrittura che ci parlano dell’amore misericordioso di Dio, lo sono altrettanto quelle che ci descrivono la sua ira e minacciano il suo giudizio.

Pertanto, se noi viviamo nell’obbedienza a Dio, non possiamo censurare le pagine che non ci piacciono o non rientrano nella visione che noi ci siamo costruiti di Dio. La pretesa di incasellare Dio ha portato nel passato a predicare un Dio somigliante a «un sovrano dispotico, irascibile, tirannico, sempre pronto a castigare e a schiacciare le sue creature”. La stessa pretesa ha portato oggi a ridurre il Signore  simile a un vecchietto inoffensivo, al quale in fondo va bene tutto e il contrario di tutto» (p. 175).

I testi difficili della Bibbia non vanno ignorati, bypassati o banalizzati. Vanno letti, studiati, ben compresi e – solo dopo – attentamente spiegati e predicati alle persone (cfr Aldo Martin, Anche Dio si arrabbia. L’ira e il giudizio divini come modi estremi di amare (Attualità della Bibbia s.n.), Città Nuova, Roma 2020, pp. 192).

L’ira di Dio è finalizzata a portare fuori il popolo e la singola persona dalla sua condizione di peccato e a non lasciarlo nella sua situazione perchè in gioco c’è il loro bene, il loro futuro, c’è salvezza eterna.

 

Anche Cristo si adira

Non solo Dio, ma anche Cristo si adira. Tutti e quattro gli evangelisti riportano un episodio nel quale si racconta che Gesù, giunto al tempio di Gerusalemme, dopo avere visto i commerci che in esso si svolgevano, “fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi” (Gv 2, 13-25). Vedendo il comportamento di Gesù, “i suoi discepoli si ricordarono delle parole: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà.”. In che cosa consiste questo  “zelo per la casa del Padre” che divorava Gesù?

San Benedetto, nella sua regola, distingue uno zelo buono da quello cattivo. Scrive: “Come c’è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta allinferno, così ce n’è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna” (RB 72, 1-2). L’ira di Gesù, poiché è suscitata dallo zelo per la casa del Padre è un’ira buona.

In altre parole la sua ira, poiché è orientata a Dio, è esente dal desiderio di vendetta o da sentimenti di cattiveria. Le sue emozioni, potremmo anche dire il suo comportamento fuori dalla righe, non lo accecano, come succede spesso nell’ira. Gesù, infatti, controlla i suoi gesti e, in tutto ciò che fa, mantiene una forma di rispetto per le persone. Conserva il suo equilibrio. Manifesta la sua indignazione, ma ne spiega anche la ragione. Si concentra sul messaggio che vuole trasmettere: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. Egli è il Figlio di Dio e non può sopportare che il Padre suo non sia adorato e amato.

Con il suo comportamento ha offerto a noi un esempio forte e deciso. Davanti al male che offende Dio e umilia l’uomo non possiamo rimanere neutrali, fare finta di niente, soprattutto quando i peccati sono gravi ed evidenti. Se assumessimo questo comportamento diverremo complici delle azioni malvagie. C’è quindi una giusta ira che nasce quando Dio non è riconosciuto e l’uomo non è rispettato. San Bernardo afferma che non adirarsi quando si dovrebbe è peccato.

Diventa comprensibile, così,  l’ira di Mosè quando scopre che gli ebrei si sono costruiti il vitello d’oro (Es 32,19.22). Oppure l’atteggiamento di san Paolo ad Atene che “fremeva dentro di sé al vedere la città piena di idoli” (At 17,16). In entrambi i casi, come in tanti altri presenti nella Bibbia, l’ira è buona e santa perchè, come insegna san Tommaso è motivata dallo zelo, o meglio ancora si chiama “zelo” (Somma teologica, II-II, 158, 8, ad 2). Lo zelo, infatti, manifesta un amore grande ed intenso per il Signore. Un amore che non tollera il peccato e cioè non tollera alcun male.

Fatte queste poche doverose riflessioni introduttive possiamo ora affrontare il nostro tema, che riguarda il vizio dell’ira.

 

Il vizio dell’ira oggi

L’ira, oggi, è così usuale da non sembrare più essere un peccato. Anzi, non solo viene giustificata, ma addirittura ritenuta utile, perchè servirebbe ad assicurare il nostro equilibrio psicologico. Infatti, l’ira permette di essere se stessi, di non reprimere le nostre emozioni.  In conclusione l’ira non è affatto pericolosa, ma utile.

Non così, però, la pensano i grandi maestri di vita spirituale, i quali la qualificano come vizio. Evagrio Pontico, pone il vizio capitale dell’ira dopo la gola, la lussuria e l’avarizia. San Gregorio Magno pone l’ira dopo la superbia, l’avarizia, la lussuria, l’invidia e la gola. Questi autori, aiutati anche dalla riflessione degli scrittori pagani del periodo greco e romano, riconoscono che il vizio dell’ira ha degli effetti su di noi e sugli altri che possono essere devastanti.

Libro dei Proverbi: “Mantice per il carbone e legna per il fuoco, tale è l’attaccabrighe per riattizzare le liti” (Pr 26,21).

San Cassiano afferma che chi ha l’Ira dentro ferisce come uno scorpione, è subdolo come una volpe, scalcia come un asino.

San Gregorio Magno dice che “lira è figlia dellinvidia, è madre della tristezza, compromette la somiglianza delluomo con Dio, fa perdere la sapienza, chiude la mente allilluminazione dello Spirito Santo”.

Dante ne parla nel VII canto dell’Inferno. Gli irosi sono collocati nel fango scuro dove si percuotono dilaniandosi con i loro denti. Nel XV canto del Purgatorio avanzano in un fumo denso che induce le anime a gesti inconsulti. È il buio della ragione che ha annebbiato la loro testa in vita.

Ludovico Ariosto (1500) nell’Orlando furioso racconta la vita di quest’uomo posseduto dall’Ira, che diventa artefice di ferocia e distruzione a seguito di quello che, a torto, riteneva un tradimento della sua amata Angelica.

Dall’ira, dunque, proviene ogni sorta di mali: la bestemmia, l’asocialità, le risse, fino ai delitti più gravi.

 

Nascondere l’ira è impossibile 

L’Ira è l’unico vizio che non si può nascondere. Una persona gelosa, avara, invidiosa può nascondere il proprio vizio. La persona che si lascia guidare dall’ira, invece, si rende ben visibile. Per riconoscere quanto sia vera  questa affermazione possiamo fare riferimento ai tanti sinonimi (aggettivi) che possiamo utilizzare per qualificare una persona irosa: irascibile, collerica, irritabile, rabbiosa, furibonda, infuriata, furente, inferocita, astiosa, isterica, alterata, ostile, violenta.

Per definire l’ira si usano anche immagini prese dal mondo animale: l’arrabbiato è “come una belva”, è “come un cavallo imbizzarrito”, è “inviperito”. Il Libro dei Proverbi dice: “L’ira di un re è simile al ruggito di un leone: chiunque la eccita rischia la vita”( 20,2).

La persona irosa, dunque, è facilmente individuabile. Ma esiste anche un’altra ragione che rende l’iroso ben individuabile. L’ira, infatti, produce pure effetti psicosomatici: fa perdere il fiato, genera una sensazione di soffocamento, e non è dunque casuale che la Bibbia per indicarla si serva dell’espressione «brevità di respiro» (Pr 14,17).

Il viso diviene rosso, il cuore accelera i battiti, i muscoli facciali diventano tirati, la bocca si apre facendo apparire i denti serrati e compressi gli uni sugli altri, il parlare è concitato, urlato, le braccia si muovono con gesti minacciosi. Insomma, tutto il corpo della persona dominata dall’ira sembra teso verso un’esplosione da cui occorre stare il più lontano possibile.

Nell’ira l’uomo abdica a ciò che lo caratterizza, ossia la sua razionalità, e ne rimane pregiudicata la sua capacità di discernere e giudicare, di riflettere con oggettività, di esprimere giudizi sensati su persone, cose e situazioni.

L’evidenza pubblica della collera porta con sé un aspetto, diciamo, positivo. Generalmente la persona che è esplosa a causa dell’ira, quando rinsavisce, prova vergogna e ne soffre. A meno che non sia proprio cieco. Forse è a motivo di questo disagio che l’ira è un vizio da cui ci si può correggere più facilmente. Esso induce a disciplinarsi, a pentirsi di essere stati trasportati dall’ira a compiere gesti inconsulti.

L’ira quando diviene una presenza costante porta al disprezzo e all’odio dell’altro. Gesù giudica l’atteggiamento dell’iroso alla stregua dell’omicidio: “Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna. (Mt 5.21-22). Infatti, nell’ira è presente la volontà della distruzione dell’altro.

È il terreno su cui nasce l’aggressività e si sviluppa la violenza verso il fratello. La collera o l’ira impedisce, dunque, la possibilità di ogni forma di relazione, di comunicazione, di incontro e di dialogo. Se la collera diviene un habitus, essa genera il pensiero che «gli altri sono linferno» (Jean-Paul Sartre). Ed è in questo senso che l’ira è indirizzata, purtroppo, anche all’Altro per eccellenza, ossia a Dio, fino alla bestemmia e al sacrilegio, quando Egli pare resistere ai nostri desideri e alle immagini che nutriamo di lui.

 

Il primo peccato fraterno nella Bibbia fu l’ira di Caino 

Non è, dunque, un caso che il primo peccato fraterno testimoniato dalla Bibbia sia l’ira di Caino che ebbe come esito l’omicidio di Abele. Recita il testo biblico: Ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. (Gen 4,5). Dicevo poco fa che l’ira divampa sul volto, deforma la postura, cambia il volume e il tono della voce. Per questo motivo il libro della Genesi per descrivere l’ira di Caino, utilizza un’espressione che, letteralmente, significa: “s’infiammò (bruciò)”.

Aggiungendo che “il suo volto era abbattuto”. L’ira è repentina, fulminante. Mentre gli altri vizi capitali ti avvelenano goccia a goccia, quotidianamente, l’ira è tanto più violenta quanto più rapida. Salta fuori all’improvviso, si sfoga esattamente come fa un fulmine e poi torna a scorrere silenziosa e invisibile nelle più recondite profondità della coscienza. Le caratteristiche dell’ira, quindi, sono quattro: è publica, palese, esteriore e improvvisa.

È importante considerare questi aspetti, perchè ci aiuta a comprendere che il vizio dell’ira non è così frequente come possiamo ritenere e, quindi, dobbiamo stare attenti a non confonderlo con altri peccati.

Faccio un esempio. Una persona che  cova vendetta, che è interiormente e segretamente piena di odio, non è una persona collerica. Aristotele aveva capito molto bene questa differenza. Perché l’odio può essere calcolo, razionalità, freddezza, mentre l’ira è un vulcano che esplode, un fiume che esonda, un Demone che irrompe improvvisamente sulla scena.

Nel suo aspetto cattivo, l’ira è peccato grave, un peccato mortale solo se spinge fino al proposito di uccidere o ferire il prossimo in modo brutale, con la violenza dei fatti e delle parole. In questi casi l’ira lede gravemente il comandamento dell’amore del prossimo. E in quanto tale è incompatibile con la carità (fondamento della vita cristiana), la quale per sua natura non si adira”, come ci ricorda Paolo (cf 1Cor 13,5).

Esiste, tuttavia, un’accezione buona dell’ira. I moralisti, in linea con l’insegnamento biblico, considerano lecita l’ira quando ci si adira in modo ragionevole per una colpa e se ne esige il corrispondente castigo (mi hanno derubato) oppure quando  l’ira suscita l’istinto a difendersi se si viene aggrediti con la forza.

 

La virtù della mitezza contrapposta al peccato dell’ira 

La virtù che ci consente di opporci all’ira e alla collera è la mitezza, la quale è una Virtù tipicamente evangelica. Gesù si propone a noi come modello di mitezza: Imparate da me che sono mite ed umile di cuore!” (Mt 21,29). La richiesta è motivo di consolazione perchè con essa ci viene detto apertamente che il vizio dell’ira è possibile superarlo, diversamente Gesù non ci avrebbe raccomandato di imitarlo.

Cristo si definisce mite e umile di cuore, intendendo precisare con questa affermazione, che l’umiltà e la mitezza sono ragioni tipiche dell’amore. Non è possibile amare senza essere miti, amare senza essere umili. La mitezza e l’umiltà sono due condizioni senza le quali l’amore non può essere vissuto.

Solo chi imita Cristo può veramente amare e capire cosa significa essere miti e umili. La mitezza è una qualità che viene ricordata frequentemente anche nelle lettere apostoliche (cfr Gc 1.21; 3.13; 1Pt 3.3-4; 3.15; Gal 5.22-23; Ef 4.1-3; Fil. 4.5; Col. 3.12; “Tm 2.24-25; Tt.3.1-2). I numerosi testi ci portano a ritenere che la mitezza è considerata come una delle virtù che contraddistingue il cristiano nelle sue relazioni con i fratelli di fede e con le persone in genere.

Scrive Giovanni Climaco: La massima mitezza si rivela nel comportamento di chi ha un cuore pacifico e affettuoso anche alla presenza di un provocatore (La scala del Paradiso, 8). La mitezza, dunque, imprime in noi i tratti di Gesù, il vero mite che non risponde alle ingiurie e alle offese e perdona.

Nella lettera ai Filippesi san Paolo si rivolge ai cristiani con queste parole: la vostra affidabilità sia nota a tutti. Il termine “affabilità”, che a mio avviso, racchiude   sia la virtù della mitezza che dell’umiltà, è stato tradotto con “modestia”. Tuttavia questa traduzione non rende bene il significato in quanto nella parola affabilità è presente il concetto di “capacità di relazione”.

Quindi potremmo affermare che san Paolo invitandoli i Filippesi ad essere affabili chiede loro di divenire persone di comunione e di compagnia, persone che sanno creare buoni rapporti. L’affabilità nasce da Cristo e pertanto i cristiani sono chiamati a testimoniare che l’amicizia con Gesù rende persone serene, luminose, capaci di colloquio, di accoglienza, di amicizia vera e sincera. Dove “sincera” significa non manipolatoria, non impositiva, non mistificatrice.

 

La beatitudine dei miti

Potremmo dire che la beatitudine dei miti è la beatitudine di chi si sottomette alla fatica del dialogo. San Paolo VI riconosce che la mitezza, quella che Cristo ci propose d’imparare da lui stesso, è la strada maestra del dialogo. Anzi la annovera tra i “caratteri” propri del dialogo. È la mitezza che rende il dialogo non orgoglioso, non pungente, non offensivo… “promuove la confidenza e l’amicizia; intreccia gli spiriti in una mutua adesione ad un Bene che esclude ogni scopo egoistico” (Ecclesiam suam 83).

È la storia della Chiesa che ci mostra questo. San Francesco d’Assisi, in piena crociata, può incontrarsi con il sultano Al Malik perchè era un uomo mite. Così per La Pira: ha potuto anticipare i tempi ed organizzare incontri con gli islamici e visitare l’Unione Sovietica perchè era un mite.

La persona mite, che sembra un debole, in realtà trova la sua forza nel Signore. Mentre: gli scoppi d’ira, lo sbattere le porte, il battere pugni sul tavolo, il gridare come ossessi, ecc., sono segni evidenti di debolezza psichica e morale.

Il mite, al contrario, non incute paura; sa mettere le persone a proprio agio; è amico di tutti; non ha pregiudizialmente «nemici» perchè crea attorno a sé un clima di simpatia e di solidarietà. Il vero mite: non risponde alle ingiurie e alle offese; non si risente esternamente e nel cuore; non perde la pace, anzi, si sforza di superare ogni risentimento; risponde sempre con amorevolezza, pacatezza e cortesia; è pronto a ricambiare col bene chi gli fa del male; nelle traversie fisiche e morali mantiene costantemente serenità e pazienza; ecc.

“La mitezza è il cielo, l’ira è l’inferno, il punto di mezzo fra i due è questo mondo. […] Perciò più sei mite, più sei vicino al cielo” (Martín Lutero).

 

S.E. Mons. Francesco Cavina


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