“Banzai”, un reportage a fumetti per riscoprire il ruolo delle donne in Giappone
Epi, nome d’arte di Elisabetta Percivati, con il libro “Banzai. Guida al Giappone e alle sue guerriere” (Becco Giallo, 2021), ci porta alla scoperta delle donne guerriere giapponesi attraverso “un reportage a fumetti” realizzato “per chi viaggia a caccia di storie, seguendo itinerari capaci di penetrare la cultura e la vita di un Paese“, in questo caso il Giappone.
Un testo nato con l’idea, nobile, di rompere cliché ormai consolidati sul ruolo della donna nel contesto nipponico. Un libro da cui traspare chiaramente l’amore dell’autrice per le storie raccontate e per la vita delle donne che, di quelle storie, sono il cuore.
L’intervista
Rompere i cliché è uno degli obiettivi dei tuoi lavori, quale luogo comune viene sfatato da “Banzai”?
Il luogo comune che voglio sfatare con Banzai (e spero di esserci riuscita) è che il Giappone sia un paese maschilista e che lo sia sempre stato. Come tutti i paesi in realtà ha una storia dalle mille sfaccettature. Un clichè pesante come questo non permette a storie molto belle e interessanti di venire raccontate, di venire fuori.
In realtà se si paragona la storia del Giappone a quella per esempio dell’Italia, quello dei diritti delle donne è un problema comune, come in molti altri paesi. Il Giappone paradossalmente, in contrapposizione al clichè che abbiamo noi, è sempre stato più avanti sotto quest’aspetto.
Basti pensare che nel 1880 si ha avuto il primo diritto di voto alle donne in Giappone, cosa che in Italia si ha avuto solo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nella mia famiglia, come in molte altre, la prima donna ad aver avuto questo diritto è stata mia nonna solo due generazioni fa.
A cosa è dovuta secondo te la reputazione “maschilista” del Giappone?
La reputazione maschilista del Giappone è dovuta a varie dinamiche, secondo un’opinione mia personale è un clichè che viene spinto, su cui si preme perché diventi dato di fatto.
È un clichè che certe volte può far comodo perché “se tanto è un paese maschilista, a cosa serve chiedere certi diritti?”, perché “se tanto è un paese maschilista, a cosa serve pensare che una donna possa andare a capo di un’impresa?”.
In realtà i clichè a volte vengono usati in ambito politico e sociale per lasciare le cose come sono per un certo periodo, che non vuol dire come sono sempre state.
Cosa rappresenta l’utilizzo delle fotografie sullo sfondo che troviamo nelle pagine?
Le fotografie sullo sfondo delle pagine hanno un significato molto importante, sono un mio omaggio a uno stile grafico che mi ha colpita molto quando ero ragazzina, uno dei primi fumetti portati in Italia per il grande pubblico, ovvero Nana di Ai Yazawa.
Aveva uno stile molto particolare, con foto in bianco nero un po’ sgranate con Photoshop e con personaggi disegnati sopra. È stata una cosa molto innovativa per i fine anni ‘90, sia a livello grafico che di modo di narrazione.
Le foto tra l’altro erano dei posti che esistevano veramente a Tokyo. Questo nuovo stile mi ha fin da subito colpita perché era un modo molto diretto per mettere insieme qualcosa di reale, ovvero i luoghi delle foto, con qualcosa di irreale, ossia il personaggio rappresentato nel fumetto.
Tutte le foto che vedete nelle vignette sono fatte da me, tranne dieci che sono prese da altri autori. Questo permette al lettore di fare un’immersione totale, quando vede la vignetta vede proprio il mio punto di vista del luogo in quel momento. Vede letteralmente con i miei occhi.
Considerando che ti sei occupata dei testi e dei disegni quanto tempo è servito per realizzare un progetto importante come “Banzai”?
Nel caso di fumetti come i miei, di divulgazione storica e culturale, la maggior parte del tempo è impegnata nella documentazione, nella ricerca e nella scrittura della sceneggiatura. Per il disegno si parla di 6 mesi, 180 pagine in 6 mesi. Per il lavoro di ricerca e scrittura si parla invece di un anno e mezzo, quasi due anni, comprendenti di viaggi in Giappone e mostre.
Ci vuole tanto tempo perché si necessita dal mio punto di vista di una base storica molto forte, quindi controllare tutte le fonti, vedere che siano affidabili, incrociare più fonti. Se si ha un’informazione, vedere se più fonti la confermano.
Guardare anche di reperire informazioni il più possibile particolari, quindi non così facilmente reperibili, ma allo stesso tempo affidabili. Questo si può fare in due modi: o con molta pazienza o andando direttamente sui posti, a chiacchierare con le persone.
Cerco nel mio lavoro di dare informazioni in modo leggero, rimanendo però storicamente affidabile. Devo dare informazioni in modo leggero e comprensibile, senza però banalizzare quanto successo nella storia. Non è così facile.
Cosa vorresti provasse o capisse il lettore di “Banzai”?
Il lettore, leggendo Banzai, dovrebbe fare un passo indietro su tutti i clichè, i luoghi comuni e le aspettative che suo malgrado, non per colpa sua, possiede.
Che faccia un passo indietro sull’idea che ha del Giappone, delle donne giapponesi, sull’idea che siano sottomesse e che lo siano sempre state. In realtà no, c’è una storia molto importante, con dati e nomi precisi, che sarebbe bello non dimenticare, anzi valorizzare.
Quello che vorrei fare con il mio lavoro è quindi far capire che, quando si va in visita in un posto e si viaggia, bisogna prima di tutto mettersi all’ascolto e non partire con un’idea prefatta del paese che si visita.