“Disavvenenza”, il racconto fotografico di Marco Madonia sull’identità ai tempi del coronavirus

Scritto da il 23 Giugno 2021

 

I soggetti privi di identità presenti nel progetto fotografico “Disavvenenza“, realizzato dal giovane artista siciliano Marco Madonia, sono  figure evanescenti che percorrono gli spazi senza lasciare traccia del proprio passaggio, senza che sia loro data la possibilità di essere riconosciuti: Madonia racconta i luoghi della propria vita, ma i sentimenti che rappresenta potrebbero essere quelli di molti giovani del nostro tempo.

La dissolvenza annulla l’identità dei soggetti facendoli vivere un istante prima che i luoghi in cui si trovano prendano il sopravvento.

I primi scatti nascono alcuni anni fa ma il progetto prende forma nel 2020, anno in cui gli spazi pubblici si svuotano a causa della pandemia.

Disavvenenza non è solo la rappresentazione di un sentimento da comunicare, queste foto hanno ascoltato il silenzio delle nostre città e, soprattutto, raccontano i sentimenti di una generazione che ha imparato, a proprie spese, come le necessità del presente possano prevalere sulle ragioni del futuro.

 

L’intervista

 

Marco Madonia

Marco Madonia

 

Come nasce “Disavvenenza“?

Disavvenenza è un progetto fotografico nato quasi per caso, i primi scatti risalgono al 2018 ma il progetto ha preso forma nel 2020.

Notavo che alcune fotografie esprimevano emozioni che però non riuscivo a mia volta a indirizzare, convogliando il mio lavoro verso una storia ben precisa. Nel 2020 abbiamo vissuto tutti il problema sanitario, lì ho iniziato a capire che quelle fotografie potevano essere utili a interpretare questo periodo.

Il titolo scelto è stato “Disavvenenza” e in effetti gli scatti rappresentano soggetti privi di identità, privi di una forma che li renda  riconoscibili: il concetto dietro a questo progetto fotografico è proprio questo! Luoghi di solito vissuti, spazi urbani che rappresentavano il contenitore delle relazioni sociali, degli incontri tra le persone e che, durante il lockdown, si sono trasformati in luoghi abitati senza che l’abitante ne fosse più il protagonista.

In questo contesto la fotografia racconta la storia di persone private di un concetto fondamentale: quello dell’identità.

 

Hai parlato dell’identità degli individui ma nelle foto si percepisce anche la forza dell’identità dei luoghi.

C’è sicuramente la contrapposizione tra due presenze forti, da una parte l’assenza di identità dei soggetti trasformati in figure antropomorfe mentre, al contrario, i luoghi sembrano essere particolarmente nitidi. Allo stesso tempo i luoghi non sarebbero nulla senza la presenza di questi soggetti.

Il luogo in questo caso diventa uno scenario che non fa altro che testimoniare il passaggio di queste anime, di questi corpi, di queste persone, che però non lasciano nessun segno tangibile se non quello del proprio passaggio attraverso l’azione, lasciando questa energia di cui resta soltanto una parvenza.

Dopo due anni di emergenza sanitaria abbiamo un po’ tutti vissuto questi scenari, questi luoghi che rimangono sempre i nostri luoghi, che rimangono gli spazi che abbiamo vissuto nel tempo ma che raccontano storie diverse: storie di persone che non riescono a viverli, a sfruttarli e usufruirne come un tempo. Loro restano gli stessi perché, di fatto, i luoghi non mutano dal punto di vista architettonico e strutturale, ma mutano le storie che all’interno di essi riusciamo a vivere.

 

 

“Disavvenenza” foto di Marco Madonia

 

 

 

L’impressione è che le foto raccontino anche di un tuo legame con il territorio, con i luoghi che raffiguri…

C’è una forte impronta nostalgica in queste fotografie. I luoghi che non raccontano più ciò che hanno sempre raccontato fanno riferimento alla mia memoria, ai miei ricordi; quegli stessi luoghi che anni prima vivevo come contesti colmi di persone, di scherzi, di divertimenti, anche di malinconia… sono ora rivisti in un’ottica totalmente diversa.

C’è un’impronta nostalgica e se vogliamo anche distopica verso un contesto che non sappiamo se tornerà quello di prima.

 

Come è iniziato questo tuo percorso artistico?

Il mio percorso è nato in modo totalmente casuale. Non ho mai avuto una vera predisposizione se non quella di disegnare quando ero piccolo. Fino a quando al liceo frequentai un corso a indirizzo sanitario che ho vissuto in maniera molto sofferente, in questo contesto un professore mi ha indirizzato verso alcuni corsi fotografici, questo mi ha permesso di convogliare le mie energie positive verso qualcos’altro.

Per coincidenza nello stesso periodo ho ricevuto in regalo una macchina fotografica, contestualmente mi iscrissi a un concorso nazionale di fotografia di “Italia Nostra” e vinsi il primo premio. Quello è stato il battesimo del mio percorso. Più studiavo le tecniche e più mi appassionavo per questo mondo.

Finite le scuole superiori ho capito che questa sarebbe stata la mia strada, così ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Palermo dove mi sono laureato. Oggi mi sto occupando anche di altre forme espressive oltre alla fotografia.

 

Cosa fare per sostenere i giovani artisti?

Non posso non pensare che uno dei più grandi limiti per i giovani che fanno arte, sia essa musicale, figurativa o di altra natura, sta nel trovare la fiducia e lo spirito di collaborazione da parte delle amministrazioni.

Spesso c’è un’indifferenza talvolta mortificante e poco incoraggiante, spesso e volentieri chi tende ad esprimersi finisce per scontrarsi con la burocrazia, le autorizzazioni e così via.

Sarebbe bello che le amministrazioni tenessero a cuore il tentativo dei giovani di comunicare, in questo modo, forse, qualcosa potrebbe cambiare. Non voglio fare l’esterofilo ma esistono realtà nel mondo in cui l’arte gioca un ruolo fondamentale nell’economia cittadina e non solo.

 

“Disavvenenza” foto di Marco Madonia

 

 

Nei momenti complessi l’arte gioca sempre un ruolo importante, quantomeno di racconto…

È un periodo che può essere interpretato in due forme molto contrastanti tra di loro, non esiste una via di mezzo. Possiamo viverlo come un momento di grande ispirazione artistica: il disagio che provi, le emozioni di isolamento e impotenza, possono generare qualcosa che sia risposta di rinascita o rivendicazione rispetto a ciò che ci è stato tolto.

Oppure vivi subendo una situazione che ti rende sterile sotto ogni punto di vista, in particolare sotto il profilo professionale o creativo. Bisogna capire che questa situazione non è facile. È un periodo che mette a dura prova!

Come tutti i punti di rottura da esso può scaturire qualcosa tanto nel bene quanto nel male.

 

In certi casi sembra pesare la necessità di esprimersi generando consenso, come se fosse il consenso a definire il valore di una espressione artistica…

Il concetto del “like” in sé e per sé è l’antagonista dell’arte. Nel senso che se fai arte sperando che essa sia frutto di un’approvazione prima ancora che il messaggio arrivi, prima ancora che tu creda in ciò che fai, si va a creare un cortocircuito non funzionante. Dobbiamo essere noi i primi a credere in ciò che facciamo, nel messaggio che diamo.

Tengo a specificare che comunque l’arte non dovrebbe mai essere autoreferenziale, certamente in ciò che facciamo c’è la ricerca del confronto. Quando lavoro a qualcosa c’è un rapporto di amore e odio, non sono mai pienamente soddisfatto; certamente vivo il bisogno di comunicare ciò che ho fatto ad altre persone, anche l’eventuale disprezzo dell’opera è sicuramente un feedback di cui tenere conto, di cui l’artista ha bisogno. Il “like” invece è un concetto molto futile se parliamo d’arte.

 

Qual è il complimento più bello che hai ricevuto parlando di “Disavvenenza“?

Il complimento più bello è stata una critica da parte di un collezionista che su Disavvenenza mi disse: “non ho ben capito, mi sento molto disorientato”. Nello sguardo che accompagnò queste parole ho notato lo stesso disorientamento che ho messo io in questo progetto. Le altre sono state analisi nitide di persone che hanno compreso il mio lavoro e naturalmente mi hanno fatto piacere.

 

“Disavvenenza” foto di Marco Madonia

 

 

 


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