Cos’è la resilienza? Intervista allo psicoterapeuta cognitivo-comportamentale Ezio Pellicano

Scritto da il 20 Ottobre 2025

Resilienza: non è nascere forti, ma imparare a ricostruirsi con mente e cuore”, intervista al dottor Ezio Pellicano, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale

 

paura del fallimento

Dottor Pellicano, spesso sentiamo parlare di “resilienza” come se fosse una qualità innata, quasi un superpotere. Ma cos’è davvero la resilienza, e perché non è sinonimo di “resistenza”?

Cominciamo con il dire che non è una questione di “forza d’animo” o di tenere duro a tutti i costi, né tanto meno è una dote riservata a pochi o un segno di invincibilità. Al contrario: è un processo dinamico, profondamente umano, che emerge e si costruisce nel tempo attraverso pensieri, emozioni e comportamenti adattivi. Non si tratta di “resistere” impassibili alle avversità, ma di attraversarle, elaborarle e, quando possibile, trasformarle in opportunità di crescita.

Resilienza è la capacità di rialzarsi nonostante il dolore, di riorganizzare la propria vita dopo un trauma senza negare la sofferenza, ma integrandola. Nel modello cognitivo-comportamentale, la vediamo come la capacità di rielaborare un’esperienza traumatica, modificarne il significato soggettivo e attivare risorse per andare avanti.

Ripeto, non si tratta di negare il dolore o mostrarsi forte davanti ad esso, ma di non rimanerne prigionieri attraverso quei pensieri che lo amplificano creando una realtà soggettiva, assoluta e altamente catastrofica, come ad esempio :“Non ce la farò mai”, “Tutto è rovinato”, “Sono solo” etc.

La nebbia del dolore a volte sembra un muro.

Ma non è un muro: è nebbia.

E la nebbia, per quanto fitta, si attraversa passo dopo passo, respiro dopo respiro.

 Redazione: Nel lavoro clinico possiamo parlare sia di resilienza individuale che di resilienza familiare o cmq di gruppo?

Dott. Pellicano: Sì, assolutamente. Il concetto di resilienza non appartiene solo all’individuo è un costrutto multilivello: non è solo “dentro la persona”, ma emerge nelle relazioni, nei contesti e nei sistemi di appartenenza.

L’individuo resiliente spesso lo è perché è sostenuto da una famiglia resiliente, che a sua volta è sostenuta da una comunità resiliente.

Questo approccio sistemico è perfettamente compatibile con la sua pratica clinica: anche nel lavoro individuale in CBT si tiene conto del contesto familiare e sociale in quanto nessuno guarisce o cresce in un vuoto relazionale.

Nel particolare, quando parliamo di Resilienza Familiare o di Resilienza di Gruppo, fondamentali sono i concetti di :

  • comunicazione chiara e condivisa
  • visione condivisa della crisi (“non siamo soli, ce la possiamo fare”)
  • flessibilità nei ruoli
  • sostegno reciproco
  • capacità di cercare aiuto esterno.
  • coesione sociale
  • fiducia reciproca
  • capacità di cooperare di fronte all’avversità
  • memoria collettiva delle risorse già usate in passato

 

 Non è un po’ facile dire “basta cambiare pensiero” quando si sta male davvero?

Assolutamente no e non lo dico mai così, al contrario bisogna insegnare a come cambiare prospettiva di pensiero. Non si tratta di “pensare positivo”, ma di pensare in modo più realistico, utile ed aderente alla realtà.

La sofferenza è reale, ma i nostri pensieri (interpretazione) possono amplificarla o, al contrario (valutazione) aprirci una via d’uscita.
Come diceva Aaron T. Beck, fondatore della terapia cognitiva:

Non sono gli eventi a determinare le nostre emozioni, ma il significato che diamo loro.”

È lì che possiamo intervenire. Non sul fatto, ma sull’interpretazione.

 

Quali sono i veri ostacoli alla resilienza?

Gli schemi mentali rigidi: “Devo essere perfetto”, “Se chiedo aiuto, sono debole”, “Il dolore non passerà mai”. A livello familiare, invece, sono pericolosi il silenzio, il conflitto non espresso, l’isolamento. Una famiglia che non parla non cresce. Una famiglia che non chiede aiuto rischia di spezzarsi.

 

E cosa, invece, aiuta davvero?

La consapevolezza, innanzitutto. Poi la capacità di regolare le emozioni, di tollerare l’incertezza, di pianificare passi concreti. Ma soprattutto… la relazione. Con un partner, un amico, un terapeuta. La resilienza non nasce in solitudine. Nasce quando qualcuno ti ascolta senza giudicare e magari ti aiuta a vedere una via che tu, nel buio, non riuscivi a intravedere.

 

Spesso si pensa che i resilienti non soffrano. È vero?

No. No, assolutamente no. I resilienti piangono, dubitano, si sentono persi, come tutti. La differenza è che non si arrendono al dolore. Accettano la tristezza, la rabbia, la paura… ma non permettono a queste emozioni di cancellare la speranza. Come detto in precedenza, essere resilienti non significa essere invincibili. Significa essere umani, imperfetti, eppure determinati a ricostruire.

 

Un consiglio pratico per chi sta male in questo momento?

Si prenda cinque minuti. Si chieda:

  • Quali difficoltà ho già superato in passato?
  • Chi mi ha sostenuto allora?
  • Cosa mi ha aiutato a uscirne?

Spesso, le risposte sono già dentro di noi. E se non bastano… cerchi un professionista. Non è un cedimento. È il primo passo di un percorso di coraggio. Perché, alla fine, la resilienza è anche sapere quando non si può fare da soli.

 

 


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