Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, uno su quattro individui nel mondo soffrirà di un disturbo mentale nel corso della propria vita. Tra le principali cause? Ansia, stress cronico e bassa tolleranza alla frustrazione — sintomi spesso legati a una paura radicata del fallimento. Ogni epoca ha le sue “malattie dell’anima”

Oggi, viviamo in una società profondamente nevrotica, dove la ricerca ossessiva della perfezione, la paura del giudizio altrui e l’insicurezza cronica sembrano essere diventate quasi la norma.
Ne parliamo con il Dottor Ezio Pellicano, Psicoterapeuta e Psicologo dello Sport, per esplorare il rapporto tra paura del fallimento e nevrosi, e capire come questa dinamica influisca sulle nostre prestazioni nello sport, nel lavoro, nelle relazioni e persino nella visione del futuro.
Dottore, partiamo da una domanda semplice: perché il fallimento spaventa così tanto?
Il fallimento non è solo un evento esterno, ma una costruzione mentale. Molto spesso lo interpretiamo come una minaccia alla nostra identità: “Ho fallito → Non valgo niente”. Oppure lo associamo al dover buttare tutto all’aria e ricominciare daccapo. Ma non è così! Questo tipo di pensiero genera emozioni negative come ansia, vergogna e rabbia. E, soprattutto, è uno dei meccanismi centrali della nevrosi. Come dimostrato da studi sulla Teoria Cognitiva (Beck, 1976) in cui mi sono specializzato , il modo in cui interpretiamo gli eventi è strettamente legato al nostro benessere psicologico. Chi vive con una forte paura del fallimento interpreterà ogni evento avverso (dal meno al più grave) in ottica catastrofica e tenderà a sviluppare schemi mentali rigidi e negativi che alimentano il loro senso di insicurezza e bassa autostima.
Cosa intendiamo con “nevrosi”? È un termine storico, ma continua a circolare…
Esatto. La nevrosi oggi non è più una diagnosi ufficiale nei manuali clinici, ma rimane un concetto utile per descrivere uno stato di sofferenza psichica caratterizzato da: ansia cronica, preoccupazione eccessiva, conflitti interiori, bassa tolleranza alla frustrazione. Chi vive una forma nevrotica tende a interpretare gli eventi in chiave catastrofica, personale e globale. Un errore non è mai solo un errore: diventa subito un segnale che qualcosa non va nella propria persona. Studi recenti hanno evidenziato come questa modalità cognitiva sia strettamente legata ai disturbi d’ansia e alla depressione lieve (Grupe & Nitschke, 2013).
Quindi non è il fallimento in sé a generare sofferenza, ma il modo in cui lo viviamo?
Esattamente. Secondo la Teoria Cognitiva di Beck , molti di noi utilizzano distorsioni cognitive che amplificano la paura del fallimento, ad esempio: Pensiero tutto-o-nulla: “O vinco sempre o sono un fallito.” Etichettatura globale: “Ho sbagliato → Sono un incapace.” Questi modelli di pensiero creano un circolo vizioso che alimenta stress, rigidità emotiva e isolamento.
Nel vivere quotidiano, quali aree possono essere compromesse se si vive con la costante paura di fallire?
Questa paura può ripercuotersi su diversi aspetti della vita, tra cui:
- Sport: l’ansia da prestazione, il perfezionismo patologico e il burnout — una sorta di esaurimento totale — possono emergere quando lo sport smette di essere fonte di piacere per trasformarsi in pressione sociale. Invece di liberarci, ci schiaccia. Un interessante studio pubblicato sul Journal of Clinical Sport Psychology (2021) ha mostrato come atleti con elevata paura del fallimento presentano tassi significativamente più alti di stress e burnout rispetto a chi riesce a gestire meglio gli errori.
- Relazioni: la paura del giudizio e l’insicurezza cronica possono ostacolare la costruzione di legami autentici e relazioni stabili. Chi teme di fallire fatica a mostrarsi per quello che è. Inoltre rende compromessa l’analisi acritica della chiusura di una relazione.
- Lavoro: la ricerca ossessiva della perfezione e il timore di non farcela portano al burnout professionale , con sintomi come esaustione emotiva, cinismo e bassa realizzazione personale.
- Paura del futuro: l’insicurezza e la percezione di fallimento generano ansia anticipatoria e stress legati alle aspettative, soprattutto tra i giovani.
Tutte queste dinamiche influenzano il nostro benessere mentale e ci tengono imprigionati in un clima culturale di insoddisfazione e rigidità.
Cominciamo ad analizzare queste aree nel dettaglio. Lo sport dovrebbe essere liberatorio, invece a volte sembra schiacciare le persone.
È un paradosso molto interessante. Lo sport, se mal gestito, può esacerbare la paura del fallimento. Ma se vissuto correttamente, può diventare un laboratorio ideale per imparare a convivere con l’errore. Ogni allenamento, ogni gara, ogni insuccesso è un’opportunità per sviluppare resilienza , autoefficacia e flessibilità mentale. Impari a fallire, a rialzarti, a provare di nuovo. Ed è un insegnamento che poi puoi applicare anche fuori dal campo. Uno studio del 2018 condotto dall’Università di Toronto ha mostrato che atleti che praticano sport individuali e ricevono supporto psicologico sviluppano livelli significativamente superiori di resilienza rispetto a chi pratica sport di squadra senza interventi mirati.
E fuori dal campo sportivo, queste dinamiche si ritrovano anche nel lavoro?
Certamente. I meccanismi psicologici sono praticamente identici. La paura di non farcela, l’esigenza di essere perfetti, la preoccupazione del giudizio altrui: tutti elementi che possono sfociare nel burnout professionale.
Quali sono i sintomi principali del burnout?
Esistono tre indicatori principali:
- Esaustione emotiva: sentirsi costantemente svuotati di energie.
- Cinismo o distacco: perdita di interesse verso il lavoro, atteggiamenti negativi verso colleghi o clienti.
- Bassa realizzazione personale: sensazione di non produrre nulla di buono, nemmeno quando si lavora sodo.
Questi sintomi li osserviamo sia negli atleti che nei lavoratori, soprattutto in quelle figure che sentono di dover “essere sempre all’altezza”.
Redazione : Possiamo dire che il burnout è una risposta comune a una paura cronica del fallimento?
Sì, in molti casi sì. Chi vive in continuo stato di tensione per non commettere errori finisce per consumare tutte le sue risorse. Si crea un meccanismo di stress cronico che colpisce corpo e mente. Che si tratti di un atleta o di un dipendente, il risultato è lo stesso: esaurimento.
Allora qual è la differenza tra chi riesce a reggere la pressione e chi invece va incontro al burnout?
Moltissimo dipende dalla resilienza psicologica e dalla capacità di gestire le emozioni. Le persone che riescono meglio a tollerare il fallimento tendono a:
- Vedere gli errori come opportunità di crescita
- Avere una visione non catastrofica degli insuccessi
- Essere meno rigide con sé stesse
In pratica, hanno sviluppato un mindset di crescita, anziché uno fisso.
Quindi lo sport può essere un veicolo che aiuta a superare la paura del fallimento?
Assolutamente sì, per la mia esperienza e da sportivo praticante ritengo che sia un’utile alleato per noi terapeuti quando ci troviamo ad affrontare casi del genere. Più in generale lo ritengo utile per chiunque, purché l’approccio sia dei più adeguati. Pensiamo a come funziona l’apprendimento sportivo: si prova, si fallisce, si corregge, si riprova. È un modello simile a quello della Terapia Cognitivo-Comportamentale. Impari a vedere il fallimento non come un giudizio su te stesso, ma come feedback per migliorare. E questi strumenti mentali, una volta appresi, si trasferiscono facilmente anche nella vita professionale e quotidiana. Un buon ambiente sportivo o lavorativo che valorizzi lo sforzo, non solo il risultato, aiuta a costruire una visione non catastrofica dell’errore ed a promuove una relazione sana con la competizione. In alcuni casi, è utile collaborare con psicologi dello sport o del lavoro per lavorare direttamente sugli aspetti mentali e migliorare la resilienza.
Parliamo ora di quando e come viene chiusa una relazione: come viene vissuta da chi ha una visione nevrotica del fallimento?
La fine di una relazione può diventare devastante. Chi interpreta il fallimento come un giudizio su sé stesso può vivere una rottura come una conferma di essere “sbagliato”, “non amabile” o “destinato a non riuscirci mai”. Si attivano pensieri come: “Non merito di essere amato/a” “Se fallisco in amore, fallirò anche in tutto il resto” “Sono io il problema”. Questa modalità di pensiero genera sofferenza emotiva profonda, che può sfociare in depressione lieve o ansia generalizzata.
E invece come dovremmo interpretarla?
Come un’esperienza dolorosa, sì, ma non definitiva né indicativa del nostro valore. Le relazioni finiscono per tanti motivi: maturità diverse, bisogni inconciliabili, errori reciproci… e non sempre significano che qualcuno ha “fallito”. Imparare a separare l’evento (una rottura) dalla valutazione globale di sé stessi è fondamentale per non cadere in spirali nevrotiche.
Parlando di giovani. Come vivono il futuro in relazione a questi temi?
I giovani oggi spesso vivono un presente carico di aspettative, ma con basi precarie, e un futuro avvolto nell’incertezza. La paura di non riuscire, di prendere la decisione sbagliata, di non essere all’altezza, li paralizza. Alcuni evitano di prendere decisioni; altri le prendono in fretta, sperando di non doverle mai rivisitare. Questa incertezza può alimentare sintomi nevrotici: ansia anticipatoria, bassa autostima, ipercriticità verso sé stessi. Uno studio dell’Università di Harvard (2022) ha rivelato che il 47% dei giovani tra i 18 e i 30 anni riporta sintomi di stress cronico legati alle scelte professionali e personali.
Salutandoci, cosa consiglia a chi vive quotidianamente questa paura?
Prima di tutto, rendersi conto che fallire non significa essere un fallito. Poi, osservare i propri pensieri automatici quando si commette un errore e chiedersi: “Davvero un mio insuccesso mi definisce come persona?”. Infine, cercare di esporsi progressivamente alle situazioni temute, magari con il supporto di un professionista. Il fallimento, quando viene accolto, smette di essere nemico e diventa un alleato. Inoltre vorrei dire che se qualcuno si riconosce in alcune di queste riflessioni, che non è solo. Tante persone vivono sentimenti simili. Ti invito a dedicare un momento a te stesso: osserva i tuoi pensieri, scrivi ciò che provi, e prova a parlare con qualcuno di fiducia o con un professionista. Accettare il fallimento non è debolezza: è il primo passo verso una crescita autentica. Ricorda: il fallimento non è la fine del viaggio — è solo una tappa necessaria per arrivare più lontano .











