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“Ucraina. Nell’inferno dell’ultima guerra d’Europa”: intervista a Fausto Biloslavo

Scritto da il 26 Settembre 2022

Ucraina Biloslavo

 

Fausto Biloslavo da quarant’anni racconta le guerre scoppiate nel mondo, dall’Afghanistan, all’Estremo Oriente, dall’Africa ai Balcani. Ha rischiato molte volte la vita, è stato incarcerato, ha visto morire colleghi, civili e soldati, ha portato alla luce gli orrori e dato voce ai protagonisti, grandi e piccoli, dei conflitti più sanguinari degli ultimi anni. Primo giornalista italiano a entrare a Kabul liberata dai talebani dopo gli attentati dell’11 settembre e ultimo italiano a intervistare Muʿammar Gheddafi durante le rivolte del 2011.

La biografia di Biloslavo ci mette davanti ad una persona indubbiamente coraggiosa, eppure il suo ultimo libro dal titolo “Ucraina. Nell’inferno dell’ultima guerra d’Europa” (edito da Signs Books e curato da Matteo Carnieletto) inizia con la prefazione di Giuseppe Cruciani che, tolti i panni del mattatore radiofonico, scrive: “vi confesso una cosa: Fausto Biloslavo ha paura” perché per lui “la paura significa istinto di sopravvivenza, responsabilità, scelte razionali“. 

Cosa spinge una persona ad affrontare la paura rischiando tutto per raccontare qualcosa? Non saprei dirlo, eppure se quel qualcosa arriva fino a noi, come un tassello che ci permette di comprendere meglio ciò che accade ad altri uomini che hanno la sfortuna di vivere nel posto sbagliato al momento sbagliato, questo lo dobbiamo a quei giornalisti che, nonostante la paura, decidono di partire per raccontare ciò accade. In questo caso ciò che accade vicino a noi, nel cuore dell’Europa.

Ascolta “”Ucraina. Nell’inferno dell’ultima guerra d’Europa” di Fausto Biloslavo” su Spreaker.

 

L’intervista a Fausto Biloslavo

 

 

Qual è oggi la situazione in Ucraina?

La guerra va avanti più furiosa che mai. Adesso è ancora peggio con l’escalation e, proprio in questi giorni, si tiene il voto per il referendum nelle zone occupate, il cui risultato bulgaro potrebbe già essere annunciato, un risultato che ha un significato, oltre che politico, anche militare e strategico. Nel giro di una settimana i territori verranno annessi alla Russia, col voto compiacente della Duma, il che significa che si applicherà la dottrina militare russa la quale prevede l’utilizzo della forza necessaria, anche estrema, per difendere l’integrità della Federazione di cui faranno parte questi territori. Si vuole replicare quanto accaduto in Crimea, il che significa appunto che potrebbero usare qualsiasi arma, anche un’arma tattica nucleare.

Spero che questa escalation, come ho scritto su Il Giornale, non ci porti allo spettro nucleare, quindi a una guerra ancora più devastante, ma che, in realtà, apra uno spiraglio per arrivare a una soluzione pacifica. Tutti, pur condannando l’escalation, hanno compreso la necessità di sedersi a un tavolo, il primo segnale è stato lo scambio di prigionieri garantito da turchi e sauditi che, pur non essendo il massimo della presentabilità, hanno messo in porto un piccolo risultato di distensione.

Sedersi al tavolo non è impossibile ma, certamente, molto difficile. Una missione che dovrebbe essere nelle mani di un’Europa con la “E” maiuscola che tuttavia non appare all’orizzonte. Di fatto si continua a combattere, ora le piogge autunnali e l’inverno rallenteranno le operazioni, ma se non ci mettiamo mano rischia di diventare una guerra senza fine.

 

Tanti ucraini stanno facendo ritorno nonostante la guerra?

Gli ucraini sono profughi di guerra veri che, appena possono, appena hanno una piccola possibilità di sopravvivenza – insomma appena pensano non gli arrivi un missile proprio sulla testa – tornano a casa. Lo dicevano dall’inizio: scappiamo ma vogliamo tornare il prima possibile. Potremmo dire che gli ucraini volevano tornare a casa sin da quando scappavano.

Il problema ora sono quelli che stavano a ridosso del fronte. Pensiamo a chi stava a Kharkiv che è stata liberata nell’offensiva di inizio settembre e ora vuole tornare. Vogliono tornare anche troppo presto, per esempio Izium era stata spopolata ma ora le persone vogliono tornare, il problema è che la città è distrutta all’80% e quindi la domanda è anche “dove tornare?”,  un problema logistico certamente non semplice.

 

Cosa rende questa guerra diverse da tutte le altre?

Prima di tutto si tratta di una guerra convenzionale tra forze convenzionali, due eserciti con armi pesanti e nel cuore dell’Europa. È gente come noi, ho trovato ragazzini di 17 anni e mi è sembrato di vedere mia figlia che sta lì col telefonino, con la differenza che loro erano in un bunker dentro una scuola. Una grande differenza che colpisce anche chi la racconta, viene da pensare “oggi loro, domani noi”. Non è una guerra a una latitudine sperduta, in Afghanistan, oltre mare, oppure in Iraq, ma è qui, proprio a casa nostra.

 

Come hanno vissuto i giovani ucraini questa situazione.

Tutti pensavo che i Russi sarebbero entrati in Ucraina come un coltello nel burro e che in una settimana tutto sarebbe finito. Sono rimasto stupefatto dalla resistenza, direi impensabile, degli ucraini, stupefatto anche dai giovani che preparavano le barricate e le molotov, sistemi del tutto inutili se fosse arrivata una colonna di carrarmati : sapevano che si sarebbero immolati se fossero arrivati i carrarmati a Kiev. Facevano riferimento agli stessi ragazzi di Budapest ’56 e Praga ’68, solo che ora siamo nel 2022 ed è cambiato il mondo, non c’è più l’Unione Sovietica ma la grande Russia che avanza.

Ora il problema inizia a essere il lavoro, sbarcare il lunario, fare il pieno di benzina, che non c’è e, quando si trova, costa. Un ragazzo che fa il cuoco e mi accompagnava dal confine Polacco a Leopoli, guadagna 300 euro e, se paga 80 euro per fare il pieno quando trova la benzina, per lui la situazione diventa insostenibile. Il peso del danno collaterale della guerra, cioé l’economia disastrata, in un Paese che già prima non era ai massimi livelli economici, comincia a preoccupare le persone, soprattutto i giovani.

 

Nel libro si parla di quanto accaduto dal 2014 in poi, potevamo prevedere questa situazione?

Nel 2014 ero sul posto a raccontare cosa stesse accadendo a Maidan, quando con un colpo di mano viene preso il potere e cacciato Yanukovich e nessuno, tantomeno i miei colleghi, pensava a quello che sarebbe accaduto in seguito.

Dopo Maidan nessuno immaginava la Crimea, eppure c’è stata. Non si sapeva neanche cosa fossero il Donbass o la Novorossia. La guerra è durata otto anni e viene da chiedersi come abbiamo potuto pensare che questo conflitto restasse così per sempre?

Gli stessi Ucraini di Kharkiv, a due ore di macchina dal Donbass, dicevano che la guerra era lontana. Anche le cancellerie occidentali pensavano ad una situazione limitata, ma ogni conflitto congelato, prima o poi, esplode. Abbiamo fatto male i nostri calcoli, bisognava fare di più prima per risolvere finché la situazione era ancora, seppur difficilmente, contenibile. Siamo arrivati all’impensabile, ad un’invasione nel cuore dell’Europa, anche io non riuscivo a credere ai miei occhi.

 

Come possiamo fare una corretta informazione sulla guerra?

Non è facile, ormai, accanto alla guerra vera si sta combattendo dall’inizio una colossale  guerra dell’informazione e della disinformazione, da entrambe le parti. Penso che  propaganda e disinformazione abbiano un peso determinante nella guerra.

Anche nell’opinione pubblica – lo vedo presentando il libro in giro per l’Italia – siamo alle tifoserie. Quando cerchi di rapportati alla realtà dei fatti, le tifoserie, come allo stadio, non capiscono nulla e hanno i paraocchi come i cavalli, non ti ascoltano, o stai da una parte o stai dall’altra.

Qui però si tratta di raccontare questa guerra, io ho deciso di raccontare quello che vedo, che sento e che documento. Stando sul campo vedo, analizzo e cerco di riportare i fatti, questa credo sia sempre la scelta migliore. Sono  stato accusato di essere prima filo-ucraino, poi filo-russo e questo vuol dire che forse ho fatto bene il mio lavoro.

 

Il libro si apre con una prefazione di Giuseppe Cruciani che parla della paura.

Prefazione bellissima e azzeccatissima, perché la paura c’è e, aggiungo, deve esserci sempre; la prima regola è portare la pelle a casa, perché se no non porti neanche il servizio a casa. La paura è un ottimo campanello di allarme, ti mette quella tensione che permette di affrontare il pericolo e di uscirne, oppure che ti permette di decidere di non affrontarlo, di fare un passo indietro. Grazie alla paura penso di aver salvato la pelle diverse volte.

 


Opinione dei lettori
  1. Maria Isabela   Di   30 Settembre 2022 alle 7:26

    Vi prego di non fermarvi mai con la vera informazione. La vostra è una missione importantissima che in questo momento soprattutto potrebbe salvare l’umanità.

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