“Il viandante della filosofia”: intervista allo scrittore Marco Alloni sul suo dialogo con il filosofo Umberto Galimberti
Scritto da Nicola Pozzati il 13 Gennaio 2022
“Il viandante della filosofia” è il libro nato dall’incontro tra lo scrittore e giornalista Marco Alloni e il filosofo Umberto Galimberti. Un dialogo sui temi grandi temi della filosofia: il significato dell’esistenza, la ricerca della verità, l’amore, la vocazione e così via.
Una conversazione non didattica e molto schietta, capace di suscitare riflessioni sul tempo presente; un libro intimo in certi passaggi dove Galimberti, con con grande dolcezza e sincerità, parla del rapporto con la moglie e delle profonde implicazioni della sua scomparsa.
Le riflessioni sono anche taglienti e le posizioni espresse su alcuni temi – pensiamo a quelle relative alla religione – potrebbero non essere condivise da tutti, ognuno potrà farsi un’idea leggendo. In ogni caso è bello immaginare Alloni e Galimberti riflettere assieme; vedere il filosofo fumare, circondato dai libri, ascoltarlo parlare di cose alte senza preoccuparsi di apparire fragile.
L’intervista
Come nasce Il viandante della filosofia e cosa l’ha colpita di più del dialogo con Galimberti?
Prima di rispondere mi conceda una doverosa premessa: le posizioni “filosofiche” espresse di recente da Galimberti in tema di Covid e vaccini mi hanno lasciato letteralmente costernato.
Non tanto perché smentiscono alla radice alcune asserzioni del nostro libro – intervista – a partire da quella secondo cui “La filosofia è la problematizzazione dell’ovvio” – ma perché di fatto suggeriscono l’idea che il coraggio delle idee è soggetto talvolta a decadere di fronte alla paura del corpo. E che la filosofia che ne deriva cessa di essere problematica per diventare assertiva, sburgiardando così i suoi presupposti alle fondamenta.
Detto questo, ciò che mi colpì in Galimberti – e la ragione per cui quel dialogo nacque – sta nella sua estrema lucidità di fronte al problema della metafisica occidentale: ovvero aver riconosciuto i gangli fondamentali dell’identità occidentale proprio in quella metafisica che da Platone a Heidegger è a un tempo il connotato più alto e più suicidale dell’Occidente per come si è configurato nei secoli.
Nel dialogo Galimberti afferma che “uno che si dedica ai libri […] lo fa perché non ha la forza di vivere” mentre lei, alcune pagine dopo, afferma di non credere “che si viva di meno nel mondo delle idee”: in queste due posizioni/visioni dove si colloca il lettore che incontra i pensieri di altri attraverso la lettura? Leggere o comunque cercare risposte, secondo lei, coincide col vivere, col fuggire alla vita o con il prepararsi alla vita?
Personalmente non credo che esista una dicotomia assoluta tra vivere e pensare, tra vita e letteratura, tra vita e filosofia.
Scrivere, pensare, interrogarsi, produrre metafore o astrazioni sono possibili modi di vivere almeno quanto andare alla scoperta dell’Amazzonia o produrre pulegge in fabbrica.
Galimberti nel libro ammette una sua difficoltà a muoversi nel mondo della vita reale, e questo credo sia uno degli atti di umiltà più toccanti del volume. Ma quello che conta non è il suo sentimento rispetto alla propria posizione di intellettuale, ma semmai quanto questo suo pensiero intellettuale sia poi entrato nel mondo reale altrui. E qui credo che la risposta sia: moltissimo.
Tutti siamo debitori, nell’organizzazione della nostra vita reale, del pensiero di Galimberti. Quindi che lui abbia patito o patisca la propria individuale difficoltà a misurarsi con il mondo reale non cancella di fatto l’evidenza che la vita collettiva altrui è profondamente debitrice della sua opera e delle sue riflessioni su un piano di concretissima realtà.
Ho trovato drammatico il passaggio in cui Galimberti afferma che “ormai siamo abituati a conoscere le persone solo quando ci danno i biglietti da visita, cioè quando ci espongono la loro funzione” quasi che fossimo ciò che facciamo: eppure, secondo lei, si può realizzare la propria vocazione occupandosi allo stesso tempo delle necessità del vivere? Mi spiego meglio, possiamo realizzarci pienamente come esseri umani pur facendo – per vivere – un lavoro che non corrisponde alle nostre tensioni più profonde?
Dipende che cosa si vuole intendere per realizzazione o autorealizzazione. Si tende a pensare che un lavoro che non ci corrisponde, un lavoro alienante, sia a priori una condizione contraria alla realizzazione della propria persona. Esattamente come si tende a pensare che occuparsi di ciò che più intimamente corrisponde alle aspettative e inclinazioni del nostro spirito sia viceversa una garanzia per una compiuta realizzazione.
In realtà credo che nessuno sia mai realizzato: non fosse perché una realizzazione risolta è in se stessa la fine della ricerca, quindi la fine della soddisfazione di vivere. Il problema andrebbe dunque ribaltato. E credo che anche Galimberti lo legga in questa chiave: l’importante non è realizzarsi o non realizzarsi ma vivere per realizzarsi.
Fintanto che un metalmeccanico ha obbiettivi e orizzonti di ricerca che lo collocano in una dimensione di desiderio e aspirazione, la sua condizione umana è in definitiva analoga a quella di qualsiasi intellettuale o filosofo.
Realizzarsi è d’altronde un fenomeno passeggero: ciò che tutti ci accomuna è la realizzazione della vita nella morte. Ma questo non può essere un obbiettivo bensì soltanto un fatale destino.
C’è qualcosa di cui avrebbe voluto discutere con Galimberti ma che non avete avuto il tempo di trattare? Una domanda che avrebbe voluto fare?
Avrei voluto chiedergli come sia possibile che grandi pensatori come Gentile o Nietzsche, come Heidegger o Pound, come Céline o Marinetti, abbiano potuto sposare cause politiche non democratiche. O meglio: avrei voluto chiedergli come sia possibile non vedere, da intellettuali collaudati, il fascismo dove esso politicamente si annida.
Un problema che concerne la cointeressenza tra filosofia e morale. Oggi, per esempio, se avessimo occasione di incontrarci, gli chiederei: “Com’è possibile che nell’adesione all’idem sentire di massa e di Stato straordinarie maggioranze puntino il dito contro il neofascismo di Casa Pound, spalleggiate da illustri intellettuali, ma non riconoscano modalità fasciste nel progetto capitalistico organizzato e veicolato dalle grandi multinazionali e dall’elite finanziaria transnazionale?”.
Sarebbe una domanda a cui gradirei molto mi venisse risposto. Poiché temo che sia oggi un dovere fondamentale della filosofia riconoscere e poi combattere il fascismo che c’è, il fascismo attuale, non il fascismo che non c’è più, il fascismo defunto.
Lei vive al Cairo, mi chiedo se un giovane egiziano e un giovane italiano trarrebbero le stesse conclusioni leggendo il vostro libro? Quali pensa che siano, fatto salve le cose in comune, le principali differenze tra il crescere in Egitto e il crescere in Italia?
In estrema sintesi direi che vivere in Egitto comporta due prese di coscienza altrettanto fondamentali.
La prima: il Terzo Mondo è una risorsa straordinaria per l’Occidente cosiddetto evoluto, nella misura in cui ci insegna che lo sviluppo non coincide necessariamente con il progresso (come diceva Pasolini) e la supremazia tecnologica, scientifica, economica, politica e militare non equivalgono necessariamente a una supremazia antropologica. Imparare dal “primitivo” è una delle grandi occasioni mancate che la modernità occidentale si è preclusa sulla vita dell’isteria della crescita.
La seconda: qualunque democrazia sulla terra aspira segretamente a tramutarsi in dittatura. L’Egitto è una dittatura sulla carta ma di fatto esprime politiche e rapporti sociali che sono di gran lunga più democratici di quelli di moltissime cosiddette democrazie occidentali.
Quindi direi che vivere al Cairo significa anche riconoscere nell’Occidente una “dittatura camuffata” e nelle cosiddette dittature mediorientali delle vere e proprie “democrazie imperfette”.
L’occidentocentrismo di cui parlava Lévi-Strauss: ecco il demone da cui mi sono liberato dopo due decenni in Egitto.
Cos’è il “linguaggio poetico” capace di rappresentare un “ultimo orizzonte di speranza” di cui i giovani potrebbero essere portatori? Come potremmo riscoprire e coltivare questo tipo di linguaggio così prezioso?
Il linguaggio poetico è il linguaggio dell’anima, che questa esista o meno come connotazione biologica (come pretenderebbero gli scientisti e gli ateodevoti).
Il linguaggio poetico è la capacità di andare oltre i dettami o i pregiudizi del razionalismo. I giovani, ma soprattutto i bambini, custodiscono questo prodigio che si chiama etica dell’indifferenziato, dove tutto ciò che osservano è esposto alla magia della curiosità. Poi subentra il razionalismo, il dogmatismo coatto, religioso e laico, l’identitarismo a tutti i costi, il razzismo e tanto altro.
Ma questa innocenza che è dell’infanzia e della prima giovinezza, questo linguaggio poetico che ci aiuta a cogliere l’universale prima del particolare, l’assoluta eguaglianza fra gli esseri umani, questo è in definitiva il repertorio psichico più prezioso che abbiamo. E forse è davvero la sola forma di speranza di poter prima o poi uscire dalle strettoie della tracotanza occidentale e dai suoi complessi di superiorità.
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L’autore
“Marco Alloni (1967), scrittore, vive da molti anni a Il Cairo. Collabora con diverse testate tra le quali «Micromega», «Nazione Indiana», «Il Fatto Quotidiano» e «Il Corriere della Sera». Per l’editore Aliberti ha curato la collana Dialoghi.
Fra i suoi interlocutori: Antonio Tabucchi, Marco Travaglio, Giulio Giorello, Umberto Galimberti, Furio Colombo, Gian Carlo Caselli, Amos Luzzatto, Corrado Augias, Claudio Magris e Margherita Hack. Ha pubblicato, inoltre, il romanzo “Shaitan” e i saggi “Ho vissuto la rivoluzione”, “Egitto o morte”.
Per Aliberti compagnia editoriale è autore di Leggere il Corano nel deserto (intervista a Khaled Fouad Allam), Comportati come se fossi felice (intervista a Claudio Magris) e del saggio Il cattivo infinito.Capire Isis” (Fonte aliberticompagniaeditoriale.it).
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