Intervista al Dottor Pellicano, a cura della Redazione di Radio 5.9, sul tema attuale della “fame da pubblicazione di contenuti”

Ezio Pellicano
Negli ultimi mesi, diversi casi legati all’uso compulsivo dei social media hanno fatto notizia. Tra questi, spicca la storia di una giovane influencer che ha dichiarato pubblicamente di aver sviluppato un vero e proprio “burnout digitale” dopo anni passati a inseguire like e commenti per mantenere il proprio seguito online.
In un altro caso, un adolescente è stato ricoverato per esaurimento nervoso, causato dalla pressione costante di pubblicare contenuti perfetti e dal timore di non essere abbastanza “apprezzato” dai suoi follower.
Questi episodi, purtroppo, non sono isolati e riflettono un fenomeno sempre più diffuso: la cosiddetta “fame da pubblicazione di contenuti”. Per approfondire questo tema, la Redazione ha intervistato il Dottor Pellicano, esperto in psicoterapia cognitivo-comportamentale.
L’intervista al dottor Pellicano
Negli ultimi anni, si parla sempre più di “fame da pubblicazione di contenuti”. Potrebbe spiegarci di cosa si tratta e come si manifesta?
“Certamente. La fame da pubblicazione di contenuti è un fenomeno che descrive l’impulso compulsivo di creare, condividere e pubblicare contenuti online, spesso motivato dal desiderio di ricevere approvazione, visibilità o riconoscimento sociale.
Le persone colpite da questa compulsione sentono il bisogno costante di condividere aspetti della propria vita, pensieri o opinioni, cercando feedback immediati sotto forma di like, commenti o condivisioni.
Questo comportamento può essere alimentato da vari fattori, come la ricerca di approvazione sociale, la convalida del proprio valore personale o l’evitamento di emozioni negative come ansia o noia.”
Quindi, si tratta di un bisogno emotivo profondo che viene soddisfatto attraverso i social media?
“Esattamente. Dal punto di vista cognitivo-comportamentale, possiamo identificare diversi meccanismi alla base di questo fenomeno.
Ad esempio, molte persone presentano distorsioni cognitive, ovvero modi distorti di interpretare la realtà. Pensieri come “Se non ricevo abbastanza like, significa che non valgo nulla” o “Quella persona non ha messo like al mio post perché mi odia” amplificano l’impatto emotivo delle reazioni online, rendendo il comportamento di pubblicazione ancora più compulsivo.”
E quali sono i meccanismi di rinforzo che mantengono questo comportamento?
“Secondo il modello comportamentista, la fame da pubblicazione è sostenuta da due tipi di rinforzo: positivo e negativo. Il rinforzo positivo si verifica quando un contenuto riceve like, commenti o condivisioni, provocando una scarica di dopamina che agisce come ricompensa e incoraggia il ripetersi del comportamento.
Il rinforzo negativo, invece, avviene quando la pubblicazione compulsiva serve a ridurre temporaneamente ansia, stress o insicurezza, offrendo un senso momentaneo di sollievo.”
Quali sono le conseguenze psicologiche e relazionali di questo fenomeno?
“Se non gestito adeguatamente, il fenomeno può avere effetti negativi su diversi livelli. A livello psicologico, può portare a bassa autostima, ansia sociale e persino depressione. Nelle relazioni, la ricerca ossessiva di conferme virtuali può compromettere le interazioni reali, rendendole meno autentiche e più superficiali.
Inoltre, la pressione costante di produrre contenuti perfetti può causare burnout digitale, ovvero esaurimento emotivo e stanchezza cronica.”
Ci sono strategie efficaci per affrontare questo problema?
“Assolutamente sì. L’approccio cognitivo-comportamentale offre diverse tecniche utili. Innanzitutto, è importante identificare e ristrutturare le distorsioni cognitive.
Ad esempio, trasformare il pensiero “Se non ricevo abbastanza like, significa che sono insignificante” in “Il numero di like non riflette il mio valore personale”. In secondo luogo, si possono introdurre strategie di riduzione graduale del comportamento compulsivo, come limitare il tempo sui social media o stabilire obiettivi specifici per la pubblicazione di contenuti. Tecniche di mindfulness possono supportare questo processo, aiutando a rimanere presenti e consapevoli delle proprie azioni.”
E per quanto riguarda la gestione delle emozioni negative?
“È fondamentale sviluppare abilità di coping sane per gestire ansia, noia o insicurezza. Attività come la respirazione diaframmatica, l’esercizio fisico o l’attività creativa possono offrire alternative valide alla pubblicazione compulsiva.
Inoltre, è importante rafforzare l’identità offline, impegnandosi in attività significative, coltivando relazioni reali e sviluppando interessi personali.”
Chi sono i soggetti maggiormente a rischio di sviluppare questa fame da pubblicazione di contenuti? Esiste un legame con l’età o il sesso?
“I soggetti maggiormente a rischio sono quelli che vivono in contesti caratterizzati da alta pressione sociale o da scarsa autostima. Gli adolescenti e i giovani adulti sono particolarmente vulnerabili, poiché si trovano in una fase dello sviluppo in cui la ricerca di identità e l’approvazione sociale sono centrali.
Inoltre, i social media sono diventati uno strumento fondamentale per costruire relazioni e percepire il proprio valore in questa fascia d’età.
Per quanto riguarda il sesso, studi recenti suggeriscono che le donne tendono a essere più sensibili alle dinamiche di convalida sociale legate ai like e ai commenti, mentre gli uomini possono essere più inclini a utilizzare i social media per dimostrare successo o status.
Tuttavia, queste differenze non sono assolute e dipendono molto dal contesto culturale e individuale. Anche gli adulti non sono immuni: chi svolge lavori legati alla visibilità online, come influencer o professionisti del marketing, può sviluppare una dipendenza simile a causa della pressione costante di performare digitalmente.”
Cosa si rischia esponendosi in maniera compulsiva al mondo digitale?
“Esporsi in modo compulsivo al mondo digitale può portare a una serie di rischi significativi. Innanzitutto, c’è il rischio di iper esposizione personale , ovvero condividere informazioni private che potrebbero essere utilizzate in modo improprio, ad esempio per cyberbullismo, stalking o frodi.
Inoltre, la continua ricerca di validazione online può portare a una perdita di autenticità , dove la persona finisce per mostrare solo una versione idealizzata di sé stessa, aumentando il divario tra l’identità reale e quella percepita dagli altri.
Un altro rischio è quello della dipendenza digitale , che può compromettere la qualità del sonno, la concentrazione e le relazioni reali. Non dimentichiamo poi il sovraccarico emotivo: il continuo confronto con vite apparentemente perfette può generare insoddisfazione, frustrazione e sentimenti di inadeguatezza.
Infine, c’è il rischio di erosione della privacy: pubblicare troppo frequentemente contenuti personali può rendere difficile mantenere confini chiari tra vita privata e vita pubblica, esponendo la persona a giudizi o critiche non richieste.”
Come si sente oggi una persona che non fa uso dei social rispetto a una persona che ne abusa?
“È interessante confrontare queste due realtà. Una persona che sceglie di non utilizzare i social media spesso riporta un maggiore senso di libertà e controllo sul proprio tempo e sulle proprie emozioni.
Non essendo costantemente esposta a confronti sociali o alla pressione di pubblicare contenuti, può concentrarsi maggiormente su attività offline, relazioni reali e obiettivi personali.
Tuttavia, alcune persone possono sentirsi isolate o escluse, soprattutto se i loro amici o colleghi comunicano principalmente tramite piattaforme digitali. D’altra parte, una persona che abusa dei social media può sperimentare un forte senso di dipendenza e ansia.
Spesso si sente costretta a controllare costantemente il telefono, temendo di perdere aggiornamenti o di essere “taggata” in qualcosa. Questo comportamento può portare a un circolo vizioso di stress e insoddisfazione, poiché la persona cerca continuamente conferme esterne per sentirsi valida.
In alcuni casi, l’abuso può anche causare un senso di alienazione, poiché le interazioni online sostituiscono quelle reali, lasciando la persona con una sensazione di vuoto emotivo.
In sintesi, mentre chi evita i social può godere di una maggiore tranquillità mentale e connessione con il mondo reale, chi ne abusa rischia di cadere in un vortice di insicurezza e dipendenza digitale. Tuttavia, è importante sottolineare che ogni individuo è unico e le esperienze possono variare notevolmente.”
Oggi, la fame da pubblicazione di contenuti non rappresenta solo un uso compulsivo in risposta a un disagio interiore, ma anche una forma di monetizzazione per molti. Non è un rischio che un lavoro diventi o nasconda qualcosa di patologico?
“È una domanda molto pertinente e complessa. Oggi, molte persone trasformano la pubblicazione di contenuti in un’attività professionale, diventando influencer, creatore di contenuti o marketer digitali. Questo fenomeno ha creato nuove opportunità economiche, ma ha anche aperto la porta a dinamiche potenzialmente patologiche.
Il problema principale è che, quando la produzione di contenuti diventa una fonte di reddito, il confine tra lavoro e compulsione può sfumare. Ad esempio, una persona potrebbe sentirsi costretta a pubblicare costantemente per mantenere il proprio seguito e garantire entrate economiche, anche a costo di sacrificare il proprio benessere psicologico. Questo può portare a un sovraccarico emotivo, burnout e una perdita di autenticità, poiché la persona si trova a dover soddisfare costantemente le aspettative del pubblico o degli sponsor.
Inoltre, il lavoro stesso può diventare una forma di dipendenza, in cui la persona misura il proprio valore esclusivamente in base ai risultati online, come il numero di follower, visualizzazioni o guadagni.
Questo tipo di mentalità può nascondere dinamiche patologiche simili a quelle che si osservano nei disturbi da dipendenza o nei disturbi dell’immagine di sé. Tuttavia, ciò non significa che ogni lavoro legato ai social media sia necessariamente patologico. Molte persone riescono a trovare un equilibrio, impostando confini chiari tra lavoro e vita privata e mantenendo un rapporto sano con la propria attività.
Il rischio maggiore si verifica quando il lavoro diventa l’unica fonte di identità e soddisfazione personale, trascurando altri aspetti della vita, come le relazioni, il riposo e il benessere interiore.”
In passato, cosa possiamo individuare che si avvicini all’odierna fame da pubblicazione di contenuti?
“Se guardiamo alla storia, possiamo trovare diversi fenomeni che, seppur in contesti e forme differenti, riflettono dinamiche simili all’odierna fame da pubblicazione di contenuti.
Ad esempio, nel XIX secolo, il fenomeno delle “lettere aperte” o delle “memorie autobiografiche” era molto popolare.
Molti scrittori, politici o semplici cittadini pubblicavano lettere o libri in cui raccontavano dettagli intimi della propria vita, spesso con l’obiettivo di ottenere riconoscimento sociale o lasciare un segno nella storia. Questo comportamento può essere visto come un precursore della moderna condivisione di contenuti personali sui social media.
Un altro esempio è il fenomeno delle “diapositive familiari” negli anni ’50 e ’60. Le famiglie proiettavano foto e filmati delle loro vacanze o eventi importanti per condividerli con amici e parenti. Anche in questo caso, c’era un forte desiderio di mostrare la propria vita e ricevere approvazione dagli altri.
Infine, possiamo citare la cultura delle riviste scandalistiche e dei tabloid del XX secolo, che spesso incentravano i propri contenuti sulla vita privata di celebrità e personaggi pubblici. Questo rifletteva già una società affascinata dall’esposizione della vita altrui, un po’ come accade oggi con i social media.
Tuttavia, ciò che differenzia l’odierna fame da pubblicazione di contenuti dai fenomeni del passato è la velocità e l’accessibilità delle piattaforme digitali. Oggi, chiunque può pubblicare contenuti in tempo reale e raggiungere un pubblico globale con un semplice clic. Questa facilità amplifica le dinamiche di dipendenza e compulsione, rendendo il fenomeno più pervasivo e complesso da gestire rispetto al passato.”
Qual è il messaggio finale che vorrebbe lasciare ai nostri lettori?
“Il nostro valore non è determinato dal numero di like o commenti che riceviamo, né dal successo che otteniamo online. È fondamentale ricordare che i social media, anche quando diventano uno strumento di lavoro, non devono sostituire la nostra autenticità o il nostro benessere.
L’obiettivo non è demonizzare i social media, ma promuovere un rapporto più equilibrato e consapevole con essi. In un mondo sempre più digitale, imparare a gestire questa fame può essere un passo fondamentale verso il benessere psicologico e relazionale.
Inoltre vorrei invitarvi a riflettere sulla risposta alla seguente domanda…..” ma voi in passato avete mai sentito il bisogno di andare in piazza, salire su una panchina, alzare la mano e dire……oggi ho mangiato questo!, la mia casa è arredata cosi!..oggi sono stato qui!..il mio fisico ha queste caratteristiche ..etc etc ? “”.