Esplosione al porto di Beirut: i familiari delle vittime in udienza dal Papa chiedono verità e giustizia per i loro cari
Scritto da Elisa Gestri il 4 Settembre 2024
Esplosione al porto di Beirut: I familiari delle vittime della tragica esplosione al porto di Beirut sono state ricevute da Papa Francesco
Alle 17 e 55 di martedì 4 agosto 2020 l’ufficio di polizia del porto di Beirut segnala alla vicina caserma dei Vigili del Fuoco di Karantina un principio di incendio nell’hangar 12, contenente fuochi di artificio.
Dieci operatori arrivano sul posto in pochi minuti, ma non fanno in tempo a rendersi conto del problema che alle 18 e 07 due terribili detonazioni ravvicinate li travolgono.
Nessuno della squadra ha scampo. Il fuoco ha coinvolto del materiale altamente esplosivo: quasi tre tonnellate di nitrato di ammonio, un fertilizzante stoccato da quasi sette anni nello stesso hangar.
L’esplosione
L’energia liberata dalle esplosioni è paragonata dagli esperti a quella liberata da mille tonnellate di tritolo. La seconda detonazione, di gran lunga più devastante della prima, è avvertita a Cipro e in Israele, a oltre 200 km di distanza.
Il raggio del cratere lasciato dalla detonazione è di circa 70 metri, e lo spostamento d’aria fa scoppiare i vetri degli edifici nel giro di tre chilometri. Il bilancio definitivo delle vittime è pesantissimo: più di 240 persone uccise, oltre 700 ferite e circa 300.000 hanno perso la loro abitazione.
L’inchiesta giudiziaria sull’esplosione accerta che il nitrato di ammonio è giunto a Beirut nel 2013 a bordo della nave Rhosus, di proprietà russa e battente bandiera moldava, diretta in Mozambico ma costretta ad entrare in porto per problemi tecnici.
Le autorità portuali beirutine, però, negano all’equipaggio il permesso di riprendere il mare, e la Rhosus e il suo carico vengono abbandonati al porto dalla proprietà.
Inchiesta e misteri intorno alla vicenda
Risulta dagli atti dell’inchiesta che gli ufficiali del porto avrebbero avvertito più volte le autorità libanesi della pericolosità del nitrato d’ammonio depositato nell’hangar senza misure di sicurezza nelle vicinanze di materiale pirotecnico facilmente infiammabile; perché tali comunicazioni non sono state prese in considerazione dalle autorità superiori?
Paradossalmente, ma non troppo, solo sedici ufficiali del porto risultano essere gli unici tratti in arresto di tutta la vicenda; alcuni di essi sono stati rilasciati dopo periodi di detenzione, altri sono deceduti, apparentemente in circostanze misteriose.
Il primo giudice a capo dell’inchiesta, Fadi Sawan, ha accusato formalmente di negligenza criminale alcuni dei ministri in carica all’epoca dei fatti: il Premier Hassan Diab, i ministri dell’interno, delle infrastrutture, dei lavori pubblici e delle finanze, che di rimando hanno dichiarato di non poter essere perseguiti in quanto protetti dall’immunità parlamentare.
Oltre a non collaborare con le autorità giudiziarie, i ministri indagati hanno presentato un’istanza contro il giudice Sawan che è costretto a dimettersi dall’incarico.
Il suo sostituto, Tarek Bitar, non avrà miglior fortuna nell’accertamento delle responsabilità dell’incidente e verrà a sua volta rimosso.
A quattro anni di distanza l’incidente resta dunque avvolto nel più fitto mistero: l’ostracismo delle istituzioni libanesi non ha permesso al potere giudiziario di fare chiarezza sull’accaduto.
Il porto di Beirut funziona attualmente al 10% del suo standard pre esplosione; il Mediterraneo ha perso uno scalo importante, se non decisivo, per il traffico di merci e passeggeri.
Mentre l’inchiesta è ferma, i familiari delle vittime continuano da quattro anni a chiedere alle istituzioni giustizia per i loro cari e non si stancano di commemorarli il 4 di ogni mese.
La ferita è ancora aperta e la ricostruzione dell’area interessata dall’esplosione, in gran parte riedificata grazie alle ingenti donazioni della comunità internazionale, non sopperisce all’assenza di giustizia per gli innocenti deceduti nello scoppio.
In udienza da Papa Francesco
«È la mia quarta visita a Roma, ma stavolta sono qui con una delegazione di familiari delle vittime dell’esplosione, per chiedere al Santo Padre verità e giustizia per i nostri cari». Chi parla è Pierre Gemayel, avvocato di successo e fratello dell’architetto Jacques, ucciso da una scheggia di vetro mentre si trovava in casa propria con sua moglie e i suoi figli. Pierre è uno dei responsabili del gruppo di familiari organizzatosi spontaneamente nei mesi successivi al disastro.
«Unico della famiglia, non ero a casa quel giorno. Mi trovavo in un’altra area di Beirut e mentre aspettavo di recarmi ad un appuntamento mi sono fermato un attimo in una chiesa a pregare. Quando ho sentito l’esplosione, ho pensato a un attentato a quella stessa chiesa ; del resto, era già successo nel 1994. Poi mi hanno chiamato, sono corso verso casa e ho capito».
Pierre non riesce a nascondere la commozione quando rievoca il trauma che gli ha segnato la vita: «Ho visto scene inimmaginabili anche nei peggiori film horror. Quando sono andato in ospedale a chiedere di mio fratello, in corridoio erano allineate barelle coperte da lenzuoli da cui spuntavano sei piedi: non avevano abbastanza spazio per tutte le salme, così ne avevano messe tre su ciascuna. E anche Jacques era tra loro».
Con Pierre c’è William Noun, giovane libanese di Jbeil, che si confonde tra la folla di piazza San Pietro insieme alla moglie Maria, che a sua volta ha perso la sorella Sarah. Suo fratello Joe, vigile del fuoco di 27 anni, è stato tra i primi a perire a causa dello scoppio, chiamato con i colleghi a controllare il principio d’incendio all’hangar 12.
William è divenuto suo malgrado uno dei simboli della protesta dei familiari delle vittime: ha trascorso più di una notte in carcere, fermato dalle autorità libanesi mentre manifestava davanti al Palazzo di Giustizia di Beirut. Accompagnati dal Nunzio Apostolico in Libano monsignor Paolo Borgia. Il 26 agosto William, Maria, Pierre hanno incontrato il Pontefice nella Sala del Concistoro.
Con loro una ventina di persone: Cécile, sorella di Joseph Roukoz, 45 anni, addetto alla dogana deceduto all’interno del porto; i familiari di Nicole Helou, brillante neolaureata di 25 anni ; Ajwad, druso, padre di Jawad Chaya, soldato dell’esercito libanese; Annie, madre della ventinovenne designer armena Gaïa Fodoulian; Paul e Tracy, i genitori della piccola Alexandra Najar, dilaniata da una scheggia di vetro a soli tre anni; Lara, che ha perso la madre; Laura, la cui sorella, è rimasta cieca a causa dell’esplosione.
Con loro, i sacerdoti e i religiosi che li hanno accompagnati in questi quattro anni. Il medico cardiologo Nazih el Adem, padre della trentaseienne Krystel, morta sotto le macerie della sua camera da letto, ha consegnato al Santo Padre una lettera a nome di tutti i familiari.
L’abbraccio del Papa ai familiari delle vittime dell’esplosione al porto di Beirut
Il Papa ha stretto la mano ai presenti e si è intrattenuto brevemente con ciascuno di essi. Nel suo saluto si è unito ai convenuti nel chiedere «verità e giustizia, che non è arrivata: verità e giustizia. Tutti sappiamo che la questione è complicata e spinosa», ha continuato il Santo Padre, sottolineando che «pesano su di essa poteri e interessi contrastanti. Ma la verità e la giustizia devono prevalere su tutto».
Il Papa ha poi ricordato le storiche parole di San Giovanni Paolo II del 1989:
“Il Libano è un messaggio, e questo messaggio è un progetto di pace”, sottolineando la vocazione del Libano «di essere una terra dove comunità diverse convivono anteponendo il bene comune ai vantaggi particolari, dove religioni e confessioni differenti si incontrano in fraternità.»
Il Pontefice ha poi incoraggiato i presenti a proseguire nella loro missione: «Non siete soli e non vi lasceremo soli, ma rimarremo solidali con voi attraverso la preghiera e la carità concreta», lasciando intendere che il Vaticano si impegnerà concretamente per assicurare verità e giustizia alle vittime.
Dopo l’udienza, la delegazione ha assistito ad una Santa Messa in suffragio dei loro cari nella Cappella Paolina, concelebrata dal sacerdote libanese Victor Assouad e dal Cardinale Pietro Parolin.
Anche una delegazione dei Vigili del Fuoco vaticani ha preso parte alla celebrazione, in onore dei colleghi libanesi che hanno perso la vita nell’esplosione. Il Segretario di Stato si è quindi intrattenuto con gli ospiti libanesi in un momento di affettuosa convivialità.
“A thunder day!” Il dottor el Adem sintetizza così la visita: un giorno di tuono dentro esistenze votate ai propri cari, nella speranza che l’endorsement del Santo Padre spiani finalmente la strada alla verità.
«La nostra visita al Papa ha avuto anche lo scopo di far sapere al nostro governo: cari signori, poco importa quello che fate o non fate voi, noi vogliamo la verità e in questa ricerca non siamo soli» precisa l’avvocato Gemayel.
«Non stiamo chiedendo l’elemosina, ma un nostro diritto, quello di avere giustizia. Siamo qui per alzare la voce, cercare aiuto presso governanti dei Paesi del Primo Mondo. Ad esempio, ad oggi nessun Paese ha voluto fornirci le immagini satellitari di quel giorno. Perché? Sappiamo che molti Paesi le hanno, datecele, datele alle istituzioni libanesi e aiutateci a vincere la nostra battaglia. Perché siamo sicuri» conclude, «che un giorno avremo giustizia».