Libri – Laura Salmon è professore ordinario di Lingua e Letteratura Russa all’Università di Genova e, nel corso della propria carriera, ha tradotto alcuni dei più importanti capolavori della letteratura russa.
Nel suo ultimo libro “C’era una volta l’URSS. Storia di un amore”, pubblicato da Sandro Teti Editore, Salmon racconta la propria frequentazione della Russia, prima da studentessa e poi da giovane studiosa.
In questo memoir l’autrice raggiunge – attraverso lo “stile esclusivo della prosa narrativa” – due obiettivi: raccogliere i propri ricordi, trasportando il lettore in quei luoghi e in quel tempo in modo quasi fotografico, ridando vita ad atmosfere che, altrimenti, si sarebbero perse nel tempo e, in secondo luogo, lo porta ad una maggiore comprensione di quello che potremmo definire lo “spirito russo”, un sentimento sociale che si forma sulla scorta delle istanze del proprio tempo, ma anche della storia passata; un approccio alla vita che unisce vari fattori, talvolta anche agli antipodi tra di loro, ma che concorrono a formare il carattere della Russia e dei suoi abitanti.
Potremmo limitarci a dire che una buona scrittura sia motivo sufficiente per occuparsi di un libro – e su questo Salmon fa un lavoro egregio – tuttavia, crediamo che proprio l’attuale contesto geopolitico, marcatamente influenzato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, rappresenti uno dei motivi che dovrebbe portarci ad approfondire senza pregiudizi la cultura di questa Nazione che oggi rappresenta per noi una imprescindibile controparte.
Perché ha deciso di scrivere “C’era una volta l’URSS. Storia di un amore”?
L.S.: A differenza di un testo accademico, un libro di narrativa non decidi di scriverlo, piuttosto lo decide “lui”: si fa scrivere. Dal canto mio, ho solo cercato di pazientare, frenando la pulsione per anni. Ho aspettato il famoso “momento giusto”. Ovviamente, non intendo la “congiuntura politica” – un momento peggiore di questo, dal 1938 in poi, non lo si può immaginare, – parlo della congiuntura affettiva, psicologica e, perché no, anche professionale: a furia di saggi, libri e traduzioni, alla fine, mi è parso di aver imparato a scrivere. Infatti, verso la fine del libro, cito i racconti per Micromega che – già prima del crollo dell’URSS – avevo iniziato a pubblicare in Italia, ma la mia scrittura era ancora un po’ “primordiale”. E, soprattutto, non ero pronta: ero ancora troppo arrogante, troppo occidentale, mi mancava lo sguardo empatico che ho acquisito nei decenni, durante il mio processo di “russificazione”. E poi, paradossalmente, proprio l’attuale (e demenziale) demonizzazione europea della Russia, ovvero la narrazione dell’odio occidentale per i russi (con i quali m’identifico), mi ha non solo aperto, ma spalancato gli occhi. La russofobia voleva da me rabbia, paura, rancore, e io ho risposto con la mia “storia di un amore”, con la mia gratitudine per la dignità che il popolo russo mi ha trasmesso. In Russia l’odio non vincerà mai. Questo libro, dunque, è una “giustificazione esistenziale” (così si dice in russo), è un attestato della mia gratitudine verso il destino e del mio amore per la Russia (sovietica e non). Infine, è anche una risposta a chi vorrebbe trasformare tutta la cultura nazionale nel “Rischiatutto”…
Nel libro parla di una “crescente dipendenza interiore” di una “persistente nostalgia” (pp. 117) che la legava all’Unione Sovietica, una sorta di “mal di Russia” se così possiamo dire. Cosa rendeva quei luoghi così differenti e attrattivi rispetto ad altri?
L.S.: Le direi che non c’è una pagina del libro in cui io non cerchi di rispondere a questa domanda. In sintesi: “l’altro mondo” (noi lo chiamavamo così) non aveva winner e, quindi, neppure loser; laggiù non s’investiva ogni sforzo per diventare migliori “degli altri”, ma per diventare migliori e basta, per essere utili al prossimo, alla collettività, per guardare, vivendo, un po’ più in alto del proprio ombelico. In quel mondo, vivere “per avere” era incomprensibile e l’esibizione delle “cose” era un impensabile cattivo gusto. L’indifferenza nei confronti degli altri era socialmente penalizzante e l’assenza dei beni superflui permetteva di apprezzare la sorprendente, gratificante quantità di beni affettivi, culturali e semplicemente umani che offriva, nella sua vistosa imperfezione, il socialismo sovietico. Come me, eravamo in molti a scoprire che vivere senza spreco era psicologicamente sano, che si stava proprio meglio dentro. Infine, alle nostre ansie, diffidenze, ambizioni e presunzioni occidentali, la società sovietica contrapponeva la dignità e la vitalità di un intero, immenso popolo, il cui massimo idolo era un poeta…
Il libro è dedicato ai suoi nonni, c’è un motivo particolare per questa dedica?
L.S.: I miei nonni Salmon non avevano niente a che fare con la Russia, ma sono stati vittime del nazifascismo, come tutti gli ebrei europei e come l’intero popolo sovietico. La loro storia, in realtà, non è personale, è un piccolo pezzettino della Storia italiana (la più vergognosa). Il Diario di un ebreo fiorentino di mio nonno Elio Salmon è stato pubblicato parecchi anni fa da Giuntina e ripercorre il periodo dal maggio ’43 al novembre ’44 (sotto forma di lettere alla cognata Maria, scappata in Palestina). Per quasi sette anni, la famiglia di mio papà è stata prima umiliata ed esclusa, poi perseguitata е braccata: dal 1938 fino alla fuga dei tedeschi da Firenze. Da ragazzina, coi nonni (cui ero attaccatissima) non facevo che parlare delle persecuzioni razziali, sebbene loro provassero dolore e disagio nel ricordare quell’orrore. Ne parlavo spesso anche con papà, ma – fino agli ultimissimi anni della sua vita – mi ha tenuto nascosti dettagli significativi che mi hanno fatto capire (troppo tardi) talune sue caratteristiche propriamente “psichiche”, per esempio, la sua sensazione che incombesse sempre qualche disgrazia, che nulla potesse o dovesse andar bene. Eppure, testardamente, io continuavo a chiedere e studiare: ho imparato davvero molto sulle leggi razziali e sulle persecuzioni degli ebrei italiani ed europei, ho una ricca collezione di libri sull’argomento. Vorrei dirlo ai giovani: in Italia sono successe cose inenarrabili col tacito consenso (cioè, con l’omertà e, talvolta, la connivenza) di troppi italiani “per bene”. Poi, dopo la guerra e fino alla fine degli anni Novanta, sembrava che il Paese fosse, per così dire, maturato, che avesse una convinta percezione storica delle proprie tragiche responsabilità nei confronti di ebrei e russi. E invece no. Il primo campanello d’allarme è stato il bombardamento della Serbia, con una narrazione drasticamente falsata. Nel ’99, tutto ha cominciato a divenire più chiaro, ce lo dicevamo tra noi: “i prossimi saranno i russi”. E, nel 2014, ne abbiamo avuta la triste prova: a Kiev, un gruppo dell’estrema destra – organizzato e fomentato da “oligarchi” ucraini e dagli Stati Uniti – ha rovesciato il legittimo governo ucraino, quello votato dal popolo, e ha trasformato definitivamente, in pochi mesi, l’Ucraina in un’attivissima fucina della russofobia. L’Occidente ha taciuto, a nulla sono valse le grida di sgomento di Giulietto Chiesa e dei pochi altri che hanno provato, arditamente, ad annunciare agli italiani che, con quel golpe, si preparava, contro la Russia, una guerra feroce. E cosa abbiamo visto negli ultimi tre anni? Non solo l’Italia, ma l’Europa stessa inneggia nuovamente alle nefandezze di cui si era macchiata all’epoca del nazifascismo, chiude gli occhi mentre vengono abbattuti a centinaia i monumenti ai liberatori sovietici, mentre vengono distrutti milioni di libri e si vieta a milioni di cittadini ucraini di parlare, persino in strada, nella loro lingua materna. La mia delusione è cocente, il dolore è pungente, la voglia di scappare è costante. Tuttavia, grazie al libro, è successo un inatteso “miracolo”: ho scoperto che esistono ancora, nonostante tutto, tantissimi italiani vigili, avidi di sapere e capaci di condividere, gente umana e generosa. L’odio altrui ha tirato fuori, da molti di noi, i sentimenti migliori. Lo Stato italiano sembra deciso a cancellare non solo la Storia sovietica, ma la nostra stessa Storia italiana; spero che non avrà, tuttavia, il coraggio di fare esattamente come i persecutori dei miei nonni, cioè di tentare un “repulisti” etno-culturale. Ma, si noti bene, a livello ufficiale qualcuno lo chiede con insistenza. Proprio non credevo fosse possibile…
Parlando della “Grande Delusione Epistemologica” (pp. 157) dice “anche nei libri più rinomati, quando raccontavano cose vere, non le raccontavano tutte”. Può farci qualche esempio? In questo senso, come possiamo orientarci e avvicinarci alla realtà quando studiamo luoghi e culture differenti dalla nostra?
L.S. Se non si ha la fortuna di avere genitori o insegnanti che ci mettono in guardia dalla fede cieca e dalle verità perentorie, se non si viene educati a dubitare, ci si deve arrangiare da soli, condividendo lo sforzo con chi ha lo stesso desiderio di coltivare il pensiero critico, la propria dignità intellettuale. Io sono cresciuta all’epoca della rigida contrapposizione destra/sinistra: noi “credevamo” più di quanto riflettessimo e ascoltassimo i nostri oppositori. Questo è stato dannosissimo per il nostro spirito critico, ma il peggio lo hanno fatto i testi: i libri e, soprattutto, i film. Negli ultimi cento anni, la russofobia, ad esempio, è stata alimentata con saggi, romanzi, serie TV e un’infinità di prodotti hollywoodiani (e non solo). Tutto ciò, nei decenni, ha smaccatamente distorto e pregiudicato l’immagine dei sovietici, ma soprattutto dei russi e dei serbi. Si tratta di una dilatazione impressionate della cosiddetta “finestra di Overton”. In altre parole, possiamo usare la parabola della “rana che bolle” (l’ha ideata, mi pare, un filosofo francese): se butti una rana in acqua calda, salta via, ma se la metti in acqua fredda e poi la riscaldi gradualmente, si lascia bollire senz’accorgersene. È successo con tutti, a ogni livello. Ci hanno messo in pentola persino coi libri accademici, ma, ancor più, con la divulgazione scientifica. Moltissimi libri che ho letto, scritti spesso (assai bene) da persone d’imponente livello intellettivo, mi hanno profondamente manipolato. Si va dai testi di storia, di filosofia e di letteratura a quelli di neuroscienze e biologia. Potrei nominare tanti titoli precisi, ma non sarebbe corretto senza fornire dettagliate argomentazioni. Diversamente, nel mio libro – che è nello stile esclusivo della prosa narrativa – ho fatto un paio di esempi che mi parevano emblematici (uno letterario e uno storico) e li ho argomentati in chiave esplicitamente soggettiva. È importante capire che le manipolazioni non avvengono al solo livello dei distratti e degli indifferenti. La “cottura delle rane”, infatti, è avvenuta su larga scala in tutte le università. Ha funzionato anche con me. Prima di saltar via, ero già bella sbollentata: ogni anno, accettavo qualcosina di nuovo, finché quello che per me era sacro mi suscitava ilarità, finché quello che ritenevo discutibile diventava scontato. Sono saltata via poco prima del bollore, quando i mass media si sono dimenticati della lentezza e sono partiti subito a 100 gradi, a 100 all’ora: non solo hanno mentito spudoratamente su quello che meglio conoscevo, ma hanno taciuto su cose che avevo visto coi miei occhi nel corso di molti anni. A differenza mia, però, la maggior parte delle persone non potevano sapere cosa venisse deformato e cosa taciuto, né possono difendersi ora. Le hanno imbrogliate e io le capisco. D’altro canto, capisco anche che un europeo normale, essendo in perfetta buona fede, non riesca ad accettare l’idea che tutti i giornali nazionali е tutti i canali TV ci manipolino così spudoratamente. Il pensiero è insopportabile, in quanto implica che ci abbiano defraudato del diritto all’informazione. Il meccanismo applicato al pubblico europeo segue una logica: sanno bene che pochi crederanno “a tutto”, ma contano sul fatto che la maggioranza si dica “ovvio, esagerano, ma qualcosa di vero ci sarà…”. Su questo contano gli autori del progetto della disinformazione sistematica. Invece di vero non c’è più quasi nulla e quel poco di vero e sensato che dicono è proprio ciò che la gente nota meno. Coi russi, risaputamente, funziona al contrario (cerco di spiegarlo nel libro): qualsiasi cosa venga detta ai russi dai media, ottiene una duratura diffidenza. In Russia tutti dubitano di tutto, tutti discutono su tutto, tutti sospettano manipolazioni che, magari, non ci sono, ma potrebbero esserci. Sono cresciuti con Dostoevskij e Tolstoj, sanno che la cultura è costellata di punti interrogativi. I russi diffidano molto più di noi dei punti esclamativi.
Nel corso della sua vita ha tradotto alcune delle più importanti opere della letteratura russa, come si è avvicinata a questo mondo e quali sono le opere a lei più care?
L.S.: A questa domanda, rispondo sempre nello stesso modo. La traduzione – per quanto sia incredibile – viene spesso proposta ai giovani aspiranti studiosi che non sappiano ancora far niente. E loro, le giovani cavie, non ricevono né modelli, né istruzioni. Non hanno idea di cosa sia tradurre e neppure si pongono il problema. Io non sono stata, quarant’anni fa, un’eccezione. Il solo merito che mi riconosco è di aver capito quasi subito che stavo facendo una delle cose più difficili al mondo, senza avere i requisiti minimi e indispensabili. Dopo decenni di riflessioni sul campo e di studi teorici, ora ho un’idea piuttosto chiara della complicatissima attività della traduzione letteraria. Mi ha molto aiutato anche il lavoro con gli studenti ai miei corsi di Teoria della Traduzione e di Traduzione dal russo. Quanto alla seconda parte della domanda, prima d’indicare le opere, parto dagli autori. Tradurre Dovlatov, ad esempio, è stata una fortuna indicibile, è un autore di portata immensa: quando mi chiedono quale sua opera io preferisca, finisco col nominarle, una dietro l’altra, tutte. Dostoevskij, del resto, è per me il più grande scrittore di sempre e sto aspettando di realizzare il mio sogno: tradurre I fratelli Karamazov. Se mi dessero un solo libro da portare sulla Luna, prenderei quello (e Noialtri di Dovlatov… me lo imparerei a memoria). Manca poco, presto il mio sogno si realizzerà, ma prima devo finire Guerra e pace. Curiosamente, se con Dovlatov e Dostoevskij sono in assoluta sintonia stilistica ed etico-estetica, con Tolstoj, invece, ho sempre avvertito una certa distanza: mi sento come un’attrice che debba recitare una parte entusiasmante, ma non del tutto congeniale. Proprio per questo, mi preparo particolarmente bene: adotto delle tecniche speciali per “tolstoizzarmi” (proprio come fanno gli attori), fino a identificarmi con quel mondo stilistico ed etico. Comunque, a furia di tradurre Tolstoj, ora non fatico quasi più; dentro di me, c’è ormai talmente tanto Tolstoj, che vedo anche i minimi dettagli del testo e faccio il possibile per ricrearli tutti. Sono soddisfatta, ad esempio, della mia ri-traduzione di Karenina. Ho avuto una fortuna smisurata sia con gli autori, sia con i testi, sia con gli editori: più di così, al destino, non si può chiedere. In particolare, collaboro da anni con la collana dei classici BUR: la direttrice, Simona Mondello, è una persona straordinariamente professionale e lungimirante; grazie a lei, ho a disposizione una squadra di redattori preparatissimi e sempre pronti a supportarmi in tutto. Con gente di quel livello, un traduttore s’impegna convintamente a superare se stesso.
Quali sono, se ci sono, le differenze principali tra la Russia che ha frequentato da studentessa e da studiosa e la Russia di oggi?
L.S.: Col crollo dell’URSS, la Russia è stata trasformata in un mostro spaventoso. L’Occidente ha creduto che presto si sarebbe realizzato il suo atavico sogno: ridurla a un decimo del suo territorio, trasformarla, come si usa dire, in un “paese normale”, cioè in una colonia, da dirigere e depredare. Al disastro postsovietico, comunque, hanno contribuito i russi stessi, ovvero, la nuova categoria della media e alta borghesia degli anni Novanta, ossessionata dall’Occidente, che immaginavano come una specie di cartone disneyano, di quelli in cui le sirenette saltano fuori dal mare e se ne vanno a zonzo col principe, felici di non poter mai più nuotare. L’Occidente, dal canto suo, è abilissimo: da secoli ha imparato a vendere la propria immagine come gli specchietti che rifilava agli indios (in cambio del loro oro). E i russi degli anni Novanta, come gli indios, si sentivano lusingati da tanti specchietti, sotto forma di panini con hamburger, jeans e sneakers. Negli anni Novanta, dunque, per sopportare la delusione, la paura, la disperazione, per moltissimi russi, è esploso il desiderio ossessivo-compulsivo di fuggire nella supposta «filiale del paradiso terrestre» (così Dovlatov chiamava, con triste ironia, gli USA). Se ne sono andate centinaia di migliaia di famiglie, una vera tragedia. E, una volta arrivati in “paradiso”, la maggior parte degli emigrati russi ha capito che le sirenette, senza il loro mare, non vivono affatto “felici e contente”. Anche perché (questo è notorio) l’Occidente – rispetto alla Russia – è terribilmente noioso. El’cin, dunque, ha lasciato a Putin un Paese disastrato e svuotato. Sono passati venticinque anni e oggi la Russia è irriconoscibile, è rinata, è tornata la dignità, la speranza. Ovviamente, non posso sapere (se non dai telegiornali) cosa avvenga negli undici fusi orari del Paese più grande del mondo (è già un’impresa ardua, oggi, arrivare a Pietroburgo…). Comunque sia, ogni giorno della mia vita vorrei passarlo in Russia: sto bene tra “i russi di Russia” (che non c’entrano molto con gli emigranti). Non conosco una qualità di vita umanamente superiore, almeno in Occidente, non ho mai visto nulla di paragonabile. Non sono solo i teatri, i concerti, il livello della cultura, dell’educazione, dei dibattiti nelle cucine; non sono solo i trasporti fenomenali e i negozi aperti la notte, è proprio la gente, e non solo gli amici, ma anche quelli con cui stai in coda al supermercato. Se gli occidentali vedessero com’è davvero Pietroburgo, per l’Europa sarebbe un doppio danno: da un lato, capirebbero quante menzogne abbiano subìto, dall’altro, vedrebbero il degrado (soprattutto umano) delle metropoli occidentali.
L’invasione dell’Ucraina ha innalzato un muro tra l’Europa e la Russia e, a prescindere dall’idea che possiamo avere sulle cause del conflitto, questa situazione ci ha allontanato in un modo apparentemente irreversibile. Dato che lei conosce entrambi questi mondi vorrei farle due domande: cosa gli europei non hanno capito della Russia e dei russi? Cosa i russi non hanno capito dell’Europa e degli europei?
L.S.: La cortina di ferro del 2022 non l’ha innalzata la Russia, ma l’Occidente e, più che mai, l’Europa. Quando, nel 2014, è iniziata la guerra civile in Ucraina, è stato eretto il primo muro, quello del silenzio: l’Europa ha finto di non vedere cosa accadesse nei territori dell’Ucraina orientale, ha finto di non sapere chi fosse andato al potere a Kiev, ha accettato un regime che inneggiava a Bandera e Šuchevič, gli spaventosi “eroi” ucraini ufficiali, i cui nomi fanno rabbrividire milioni di persone al mondo. Ben pochi italiani sanno perché. Dunque, nel 2022, l’Occidente ha avuto solo, per così dire, da blindare un muro già eretto. L’idea era di chiudere la Russia “al mondo”, un’idea buffa e tragica; infatti, l’Occidente continua a credere di essere “il mondo”. Se in Occidente qualcuno studiasse ancora la Storia, saprebbe che oggi si sta ripetendo una situazione pressoché identica a quella degli ultimi tre secoli: è la terza volta in duecento anni che l’Europa ripete lo stesso errore. Lo schema immutabile previsto con la Russia è questo (semplifico): prima vengono le scaramucce, poi la pace, con baci e abbracci, e finalmente – appena i russi si rilassano – arriva la guerra. Pensiamo alle effusioni tra Napoleone e Alessandro I (dopo la campagna del 1805), ma poi è arrivato il 1812. Nel XX secolo, è avvenuto coi tedeschi di Hitler: prima il patto Molotov-Ribbentrop, quando nessuno in URSS si aspettava la guerra, ma è arrivata puntuale. Nel XXI, i trattati di Minsk prevedevano a priori di essere disattesi: i rappresentanti di Francia (François Hollande) e Germania (Angela Merkel), che facevano da garanti, l’hanno dichiarato esplicitamente. E i russi ci hanno creduto di nuovo. Mutatis mutandis, lo schema è sempre lo stesso. Questo è quello che la Russia non aveva capito dell’Europa.
Cosa non capisce l’Europa della Russia? Niente. Anzi, capisce tutto al contrario. Per prima cosa, per capire un nemico, lo si deve studiare, invece di ripetersi allo specchio per anni le proprie tiritere intrise di odio. Qui, capita di sentire “esperti” della Russia che sembra parlino di un Paese che nessun onesto russista riconosce. Invece di capire come viva davvero la gente in Russia, vanno a “giudicarla” (spesso a distanza) con prepotente spocchia, magari affidandosi alle invettive dei fuoriusciti, pronti a dire qualsiasi cosa pur di compiacere gli occidentali (a volte lo fanno pure col cuore, gratis). Se qualcuno avesse passato qualche centinaio di ore nelle cucine russe, non avrebbe fatto l’errore madornale (dal punto di vista europeo), di risvegliare un popolo intontito da un letargo trentennale e da un patologico innamoramento per l’Europa. Infatti, nel 2022, una grande percentuale dei russi era titubante: credeva davvero che l’Europa fosse democratica e antifascista, cioè, in sostanza, buona e libera. Parigi, Londra, Roma erano viste come sede della giustizia, della democrazia, dell’inclusività, del globalismo (tipo, “siamo tutti cittadini del mondo”, altro che russofobia…). Insomma, alla fine del 2021, quando la Russia – per evitare una guerra che non voleva – aveva lanciato il suo ultimo appello all’Occidente – i russi erano ancora, per lo più, invaghiti dell’Europa, proprio come due secoli fa: da una parte c’era lo Stato, dall’altra i cittadini, ai quali la sola parola “Parigi” suscitava euforia. Se i boriosi europei e gli americani avessero riletto Guerra e pace, non si sarebbero subito tolti la maschera. Mi chiedo persino se gli “esperti” l’abbiano mai letto… Tolstoj, infatti, spiega molto bene che a essere invincibile non è un leader, uno zar, ma il popolo russo, soprattutto se Mosca va in fiamme. Bismarck l’aveva capito benissimo, ma parrebbe che nessuno (in Europa) si ricordi chi fosse. Nel 2021, la situazione della Russia era identica a quello del 1811, alla vigilia della guerra con Napoleone. In Guerra e pace, la situazione veniva così sintetizzata dal generale Rastopčin, divenuto un anno dopo, poco prima che la città cadesse in mano ai francesi, governatore di Mosca:
«Ma come potremmo, principe, combattere contro i francesi!» disse il conte Rastopčin. «Potremmo alzare le armi contro i nostri maestri, i nostri dèi? Guardate la nostra gioventù, guardate le nostre signorine. I nostri dèi sono i francesi, il nostro regno dei cieli è Parigi.»
Quando, nel 1812, era iniziata la guerra – ovvero Napoleone aveva tradito la sua promessa all’“amico” Alessandro I – in un batter d’occhio, il popolo si era mobilitato compatto (salvo gli inevitabili apostati): dimenticati i dissensi interni, i russi, al fianco del loro zar, erano pronti a morire non solo per salvare la loro terra, ma per difendere i mille anni della loro Storia. Il fallito progetto napoleonico di colonizzazione della Russia aiuta a capire le ragioni per cui quella guerra è stata, per i russi, una “Guerra Patriottica”: la Russia non vuole diventare (come tutti noi in Europa) una colonia controllata dall’esterno; la sola alternativa è difendersi, continuando a esistere come grande potenza (lo è da secoli). Analogo, pur ben più cruento, è stato il progetto di Hitler: anche in quel caso, l’URSS intera si è compattata attorno a Stalin (salvo gli inevitabili apostati), a prescindere dai profondi malumori che attraversavano il Paese fino al giorno prima. Lo stesso avviene oggi: quando gli idoli europei hanno mostrato il loro vero volto, i russi si sono immediatamente riscossi dall’ennesima “scuffia”, si sono compattati (salvo gli inevitabili apostati). È bastato, per esempio, vedere come, nella Comunità Europea, s’innalzassero i monumenti alle SS, mentre si gettavano nella spazzatura i ritratti di Puškin e di Gagarin: in un batter d’occhio, è tornata la dignità, la fierezza per la propria Storia. Non si può trattare un popolo con quel fenomenale livello culturale, umanistico e scientifico, come se fosse un branco di zoticoni imbecilli. Tanto più se si diffonde col megafono un supposto, arrogante suprematismo occidentale. Negli ultimi tre anni, aver cercato – da parte europea – di far passare il proprio razzismo russofobo come libertà, inclusività e democrazia è stato il più grande aiuto che alla Russia potesse arrivare dall’esterno. A proposito, ha aiutato anche molti di noi – ranocchie italiane – a sentire la temperatura dell’acqua.
Pensa che il suo libro possa aiutare i lettori, giovani in particolare, che volessero avvicinarsi alla cultura e alla letteratura russa?
L.S.: Mentre lo scrivevo, speravo proprio di aiutare i giovani a riflettere, di dar loro un punto di partenza per porsi, finalmente, qualche domanda, per ipotizzare che – al nostro mesto snobismo – possano esserci alternative. Io offro loro i ricordi dell’esperienza di una giovane italiana, imbottita d’ignoranza e presunzione, che – scoprendo negli anni Ottanta quel mondo così umanamente gratificante – smaschera al contempo la vacuità ansiogena del consumismo, del materialismo e dell’opportunismo che, proprio allora, concorreva a realizzare una distopia degna di Orwell. Vorrei anche suggerire di guardare il film Ogni cosa è illuminata, opera prima del regista Liev Schreiber (2005). Aiuta a percepire, attraverso l’arte, il mondo slavo orientale, cioè russo e ucraino. Si tratta di uno splendido inno alla Memoria ambientato in Ucraina (seppur girato in Boemia). È un film bilingue, russo e inglese (e l’inglese è tradotto e doppiato in modo magistrale). Ed è così umoristico, sagace, delicato e prorompente da sembrare… un film russo. In quella pellicola – intrisa, peraltro di storia ebraica – c’è dolore, riso, gioia, bontà, paura e tutta la balorda forza creativa dei popoli slavi orientali; di quegli straordinari popoli slavi, tra i quali, da secoli, l’Occidente, cinicamente, semina zizzania. A proposito, Liev Schreiber “sta” – come si suol dire – dalla parte “dell’Ucraina”. Vorrei solo che stesse, come molti di noi, dalla parte di tutto il popolo ucraino, comprese le centinaia di migliaia di cittadini dell’Ucraina cui è vietato parlare la loro lingua materna (il russo), leggere Puškin (in russo) e onorare i propri cari (sovietici), morti per liberare la loro terra (e la fascistissima Europa) dal nazismo. Finirà la guerra e l’Europa saprà cos’è accaduto davvero. Così è stato dopo il tramonto di Napoleone, così è stato dopo la fine del Terzo Reich.

Laura Salmon