Caffè Lungo: Che fine ha fatto il “Pray for?”
Scritto da Redazione il 11 Ottobre 2019
Ve la ricordate la strage di Charlie Hebdo? Certo che ve la ricordate, nessuno può dimenticarsela. Nessuno può dimenticare quel video mandato a ripetizione dai media in cui si vedevano gli attentatori correre per Parigi e freddare un poliziotto. E vi ricordate della strage del Bataclan? Sì, anche di quella non vi potete essere dimenticati, nessuno può averlo fatto. Ma c’è una cosa che ricordo particolarmente e che lega quei due avvenimenti: le reazioni.
“Je suis Charlie”, “Pray for Paris”: erano frasi nella bocca e nelle bacheche social di tutti, apparivano sui quotidiani, sui muri, in ogni dove. Era comprensibile, quelle stragi ci avevano colto alla sprovvista, ci avevano colpito al cuore, ci avevano fatto sentire vulnerabili; una sorta di 11 Settembre per l’Europa, non solo per la Francia. Poi, ad un certo punto, l’interesse collettivo è andato scemando. Il problema, tuttavia, è che questo calo non riguardava l’accaduto in sé, ma la sua generalità.
Mi spiego meglio. Non vi saranno sfuggiti i recenti attentati di matrice suprematista bianca: mi riferisco all’attentato alla moschea di Christchurch in Nuova Zelanda e alla recente sparatoria nella sinagoga di Halle, in Germania, ad opera di un estremista vicino alle idee antisemite e negazioniste del neonazismo. E, se tutto questo non bastasse, non dimentichiamo l’escalation di violenze e soprusi a cui è stato sottoposto il popolo siriano in questi ultimi anni. Ecco, in tutto questo, i “Pray for…” che fine hanno fatto?
Ci siamo assuefatti alla violenza, accettandola nelle nostre vite e come componente di una possibile quotidianità? Oppure abbiamo perso interesse a manifestare il nostro dolore e i nostri sentimenti, complice un ripetersi sempre crescente di attentati dopo quelli avvenuti in Francia? Oppure, ancora, semplicemente abbiamo in maniera inconscia una gerarchia della sofferenza, dove ci sono morti di Serie A e morti di Serie B? Sarebbe bello non lasciare ai posteri anche questa ardua sentenza. Federico Bonati